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Rigenerare i borghi con la biodiversità: “La transizione ecologica punta al buen vivir”

Carlin Petrini (Slow Food): "Non è una semplice sostituzione di tecnologie. Invece è un rinnovamento storico, radicale, destinato a durare molti decenni, che va fatto con lo spirito giusto"

Rigenerare i borghi con la biodiversità: “La transizione ecologica punta al buen vivir”

Rigenerare i borghi in abbandono. Perfetto. Chi potrebbe non essere d’accordo? Soprattutto con una valanga di soldi in arrivo per far ripartire il Pae

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Rigenerare i borghi in abbandono. Perfetto. Chi potrebbe non essere d’accordo? Soprattutto con una valanga di soldi in arrivo per far ripartire il Paese. Ma che tipo di vita immaginiamo in questi borghi redivivi? Che antidoto vogliamo somministrare contro l’urbanizzazione a tappe forzate che trasferisce i problemi in città? Da Slow Food arriva una proposta fuori dal coro estetizzante. È stata lanciata a Roma durante l’anteprima (organizzata da Slow Food, Regione Lazio, Comune di Roma e Legambiente) di “Terra Madre – Salone del gusto” che si svolgerà dal 22 al 26 settembre a Torino.

La rinascita dei borghi parte dalla biodiversità”, propone il titolo del convegno alla Casa del cinema. E Vito Teti, docente di antropologia culturale all’università di Calabria, spiega di che si tratta. “Rigenerare i paesi, preferisco chiamarli così, è presentato spesso come un’operazione romantica. I borghi come luoghi pacificati, fuori dalla storia, in cui si va per non fare nulla. Tu arrivi, bevi un bicchiere di vino in una bella piazza e tutto è a posto, il paese è rinato. Ma un paese non può vivere solo di turismo, non può essere ridotto a uno scenario vuoto. Un paese vive di memoria, di conoscenza, di sapori, di relazioni, di paesaggi”.

Teti, in un libro appena uscito, propone l’“etica della restanza” prendendo la parola in prestito dall’espressione che indica il pane rimasto in credenza, messo in tavola perché è arrivato un ospite inatteso. La restanza indica la preziosità di ogni risorsa che si contrappone all’abitudine allo spreco; l’importanza della relazione, che è la forza su cui poggia una comunità; il modo di abitare un luogo, che è parte della sua essenza.

Il Museo civico naturalistico di Capranica Prenestina assieme al Comune ha dimostrato come attorno al recupero di un’abitudine alimentare si possano attivare circuiti economici, scientifici e demografici. “Per secoli la farina di castagna è stata la base alimentare di molte popolazioni delle terre alte, dal Piemonte alla Calabria”, spiega la direttrice del museo, Rosaria Olevano. “Ogni zona ha il suo tipo di castagna. E le nostre, piccole, tonde, dolci, sode, sono sempre state considerate molto pregiate. La lavorazione tradizionale consiste nel metterle in una cassetta sopra a un fuoco basso che le affumica e le secca rendendole buone da mangiare per un intero anno”.

L’abitudine di fare la farina di castagno a Capranica Prenestina – un paese a 900 metri d’altezza e a 60 chilometri da Roma – si era persa per 40 anni. Poi Comune e Museo hanno rilanciato. Hanno rimesso al centro la difesa del bosco che è stato riconosciuto come monumento della natura e parco. Hanno fatto visitare il castagneto alle scuole. Hanno usato la lotta biologica per proteggere gli alberi. E hanno cominciato a studiarli avviando la mappatura genetica del bosco.

Altre testimonianze sul significato culturale delle abitudini alimentari sono racchiuse nelle brevi clip preparate dall’Istituto centrale per il patrimonio immateriale promosso dal ministero della Cultura e in un documentario di Anna Kauber, la regista che ha passato due anni e 17mila chilometri a girare l’Italia da sola per raccontare cento donne (da 20 a 102 anni) che hanno scelto la pastorizia come mestiere.

“Sono persone molto diverse tra di loro”, spiega Anna Kauber. “C’è chi fa fatica con l’italiano e chi dopo aver preso una laurea e il diploma di musicista al Conservatorio suona il violino mentre si riposa davanti al gregge. Per tutte però i valori fondamentali sono bisogno di natura e libertà”.

“Queste testimonianze mostrano la falsità di una contrapposizione che ci viene spesso riproposta: quella tra innovazione e tradizione”, sintetizza Carlo Petrini, fondatore di Slow Food. “L’attenzione alla tradizione non è un atteggiamento nostalgico e marginale. È vero il contrario: la vera innovazione nasce dall’interpretazione creativa delle radici di un territorio, di una comunità. Oggi si parla molto di transizione ecologica e talvolta la si presenta come una semplice sostituzione di tecnologie. Invece è un rinnovamento storico, radicale, destinato a durare molti decenni, che va fatto con lo spirito giusto. E poi c’è un altro problema: gli stessi che propongono un cambiamento tecnocratico parlano di stringere la cinghia e di lunghi sacrifici. Non è un bel messaggio, non è con il magone che cambieremo le cose. La transizione ecologica punta a quello che gli spagnoli chiamano il buen vivir: la capacità di vivere bene che è l’anima dell’accoglienza italiana”.

Fonte: Huffpost.it

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