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Il precario equilibrio tra l’economia della pesca e il rispetto del mare

I lavoratori del settore ittico chiedono di rivedere le regole europee che limitano la loro attività nel Mediterraneo. Nell’Argentario un tavolo di associazioni, ricercatori e ambientalisti tenta una mediazione

Il precario equilibrio tra l’economia della pesca e il rispetto del mare

Alla fine di febbraio le proteste di un gruppo di pescatori dell’Argentario – il promontorio della Toscana meridionale – contro il caro gasolio e

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Alla fine di febbraio le proteste di un gruppo di pescatori dell’Argentario – il promontorio della Toscana meridionale – contro il caro gasolio e il fermo pesca hanno acceso una discussione pubblica sulle normative europee in materia. Dalle manifestazioni è nato un dialogo tra lavoratori, associazioni di categoria e ricercatori per trovare una soluzione a una crisi che, altrimenti, porterebbe decine di imbarcazioni ad abbandonare per sempre il mare.

L’aumento del prezzo del gasolio, fortemente legato all’inflazione e alle incertezze geopolitiche dovute all’invasione russa dell’Ucraina, ha contribuito a mettere in difficoltà l’attività dei pescatori, che resta a galla prevalentemente grazie a sussidi e agevolazioni statali. Ma sono le misure normative sul fermo pesca – necessario al ripopolamento di alcune specie e previsto dal piano europeo di gestione del Mediterraneo occidentale – ad accrescere il malcontento in banchina. Proprio questa è stata, infatti, la prima area a essere regolamentata, a cui hanno fatto seguito altre zone come l’Adriatico e il canale di Sicilia.

In questo settore sono i legislatori europei a tracciare le linee di azione: le politiche nazionali, successivamente, si limitano a recepire e diramare direttive e regolamenti mirati a mantenere il Maximum sustainable yield (Msy, il rendimento massimo sostenibile), ovvero l’indice che stabilisce la massima possibilità di cattura per una data specie ittica, in modo da garantirne la riproduzione nel tempo. Per raggiungere l’Msy le indicazioni, almeno per il Mediterraneo occidentale, sono quelle di adottare misure di riduzione dello sforzo di pesca, come la diminuzione del numero delle giornate lavorative e del numero delle barche o la chiusura all’attività ittica di alcune aree. Ultimamente, ma solo per alcune specie come per esempio i gamberi rossi, è stato introdotto un sistema simile alle quote, ovvero con dei limiti alla loro cattura.

Regolamenti stringenti

“Lo sforzo di pesca, ovvero il rapporto tra la capacità di un peschereccio o una barca (dimensioni, potenza) e la sua attività, misurata in un determinato spazio e tempo, si sta facendo sempre più oneroso per i lavoratori del settore ittico, e le catture non aumentano proporzionalmente: questo crea uno squilibrio piuttosto importante”, spiega Tonino Giardini, responsabile nazionale del settore pesca e acquacoltura di Coldiretti e componente del Mediterranean advisory council (Medac). “L’azione di pescare implica un’estrazione di risorse, quindi è ovvio, e necessario, che esistano delle regole e che si continui a studiare e raccogliere dati per stabilire dei parametri. Tuttavia bisogna ricordare che alcune condizioni congiunturali – come l’aumento dell’inquinamento, i cambiamenti climatici e la pressione dell’attività umana – possono avere influenze negative sui cicli biologici degli stock ittici, rendendo fragile e da tutelare un intero sistema produttivo che in Italia riguarda circa 28mila addetti, principalmente concentrati nelle regioni meridionali”.

Già nel 2019 si era provveduto, con il regolamento 1022 della Commissione europea, a stabilire un’accurata lista di specie ittiche in difficoltà – tra cui gamberi (rosa, rossi e viola), scampi, naselli e triglie – ipotizzando misure stringenti per la pesca a strascico, considerata quella con il maggiore impatto perché consiste nel trainare con una barca una rete da pesca sul fondo del mare.

Il regolamento 1022 nasce dalle indicazioni della Politica comune della pesca che si basa su un concetto ampio di pesca sostenibile, sia dal punto di vista biologico sia da quello socio economico, mirando a mantenere gli stock ittici a un livello tale da poter essere sfruttati anche nel futuro. Non si tratta, quindi, di una politica prettamente ambientale, anche se il benessere dell’ecosistema marino è uno dei punti saldi.

Nelle ultime settimane, inoltre, la Commissione europea ha proposto un pacchetto di misure sulla pesca sostenibile per la protezione e il ripristino degli ecosistemi marini che auspica l’eliminazione graduale della pesca a strascico in tutte le aree protette entro il 2030. Accolta con favore da ong e associazioni ambientaliste europee, seppur deluse di dover aspettare ancora sette anni, la proposta della Commissione è stata invece criticata dai rappresentanti e portatori di interessi dell’industria ittica, che l’hanno definita un’operazione di greenwashing che metterà in ginocchio l’intera comunità di pescatori.

Secondo i ricercatori negli ultimi decenni la situazione ambientale del mare è peggiorata, principalmente per l’impatto delle attività antropiche

La progressiva riduzione delle giornate lavorative a circa 160-170 all’anno ha spinto i pescatori dell’Argentario, riuniti in due cooperative, a far sentire la propria voce. “Appartengo alla quarta generazione di una famiglia di pescatori”, dice Sandro Costaglione, vicepresidente della cooperativa Sant’Andrea di Porto Santo Stefano, “e come lavoratore del mare avrò sempre a cuore il benessere della risorsa che utilizzo per vivere, sarebbe assurdo il contrario. Abbiamo ormai digerito e assimilato le variazioni sulle misure delle maglie da pesca, allargate per permettere alle specie di pesci più piccoli o più giovani di non essere catturate. Anche se si tratta di misure pensate per condizioni strutturali del tutto differenti: quelle dei mari del nord, dove la pesca è monospecifica, ovvero si concentra essenzialmente su poche specie ma con proporzioni di cattura industriali. Con l’aumento delle giornate di fermo pesca, però, in pochi mesi non avremo di che campare. Non possiamo ipotizzare delle alternative, come per esempio piccoli lavori stagionali, poiché le giornate di fermo non sono in sequenza ma cadenzate; non possiamo tagliare sui costi vivi dell’imbarcazione, e si tenga presente che mantenere attiva e funzionante una barca comporta un dispendio esorbitante di soldi e fatica; non possiamo nemmeno autoregolarci sul prezzo di vendita della materia prima, perché non è il pescatore a determinare il valore del pesce ma il mercato. E la differenza fra quanto guadagniamo noi e quanto si paga il pesce al ristorante è sproporzionata”.

Al momento, le parti in causa puntano sull’ascolto reciproco e sull’analisi delle rispettive necessità. I ricercatori, nel frattempo, attraverso rilevazioni e indagini sul campo, aiutano a compilare il Data collection reference framework (Dcrf) dell’Unione europea, una raccolta di dati sulla pesca nelle aree del mar Mediterraneo e del mar Nero. All’interno di questo processo c’è una valutazione periodica e standardizzata dello stato degli stock (stock assessment), con tre gruppi di esperti che analizzano le aree, lo sforzo di pesca e le riserve

Claudio Viva e Paolo Sartor, ricercatori presso il Centro interuniversitario di biologia marina (Cibm) di Livorno, raccontano dell’esperienza maturata nel tempo a fianco dei pescatori in tutte le fasi del loro lavoro, dalle uscite in barca di primo mattino fino alle aste serali di vendita della merce.

“Se non avessimo obiettivi comuni, e non avessimo compreso appieno le loro richieste, non sarebbe possibile né il nostro lavoro di monitoraggio e protezione della fauna ittica né l’esecuzione di una diagnosi corretta sullo stato di salute dei nostri mari. La gestione della pesca, in particolar modo quella a strascico, passa da soluzioni di compromesso e diversificate. C’è per esempio l’ipotesi di istituire aree di tutela in hotspot come le nursery areas, che permettano un aumento dei giovani esemplari di alcune specie e dove la pesca sia strettamente regolamentata; o la sperimentazione di piani di gestione specifici, studiati dalla ricerca e gestiti secondo modelli virtuosi, com’è successo in Liguria e Toscana con la collaborazione tra istituzioni e rappresentanti del settore ittico per la pesca del rossetto. Si è trattato di piani basati sulle richieste di entrambe le parti e sul mantenimento di livelli sufficienti di pesca”.

Rispetto alla condizione ambientale dei mari, in particolare del Mediterraneo, i ricercatori sottolineano che c’è stato un sensibile peggioramento negli ultimi decenni, dovuto principalmente all’impatto delle attività antropiche. “La pesca è una di queste: è indubbio che quella a strascico sia, tra tutti i sistemi, uno dei meno selettivi, ma è anche uno tra i più regolamentati”, commentano. “Dire che il nostro mare sia in pericolo solo per la pesca a strascico è eccessivo e troppo semplicistico”.

Mentre si aspetta di capire quale sarà il futuro della pesca, un tavolo formato da associazioni di categoria, ricercatori e ambientalisti spera che Bruxelles ascolti anche gli attori più piccoli della filiera.

“Spesso si sente qualcuno dire che non ha più fiducia nell’Europa”, commenta ancora il vicepresidente Costaglione: “E se penso agli sforzi che tutti noi stiamo compiendo per garantire un futuro ai nostri figli, mi demoralizzo anche io. Quel che è peggio, comunque, è che spesso la prima cosa su cui si cerca di limare i costi ha a che fare con la manutenzione delle imbarcazioni. Rimandiamo i piccoli interventi rischiando di minare la qualità e soprattutto la sicurezza del lavoro”.

Intanto il dissenso dei pescatori si estende a tutte le coste italiane. Seppur bagnate da mari diversi e suddivise in geographical sub areas differenti, ognuna con le sue peculiarità, hanno un comune denominatore: la scarsa attenzione delle riforme alla produttività del settore ittico. Infatti se da una parte il mercato delle importazioni di pesce cresce a dismisura (attestandosi tra il 60 e l’80 per cento del consumo complessivo nazionale), a fine giornata alcune specie di pesce fresco faticano perfino a trovare una destinazione, dato che la loro richiesta è limitata.

“Il problema in questo senso è legato a duplici fattori, nel nostro paese”, conclude Sartor del Cibm di Livorno. “Da una parte non c’è la cultura degli scarti, dei cosiddetti ‘pesci poveri’, che invece appartiene a molte tendenze culinarie contemporanee. Siamo disposti a pagare una cifra molto alta per alimenti già lavorati e conservati, mentre usiamo pochissimo specie meno pregiate (triglie, cefali, sgombri, alici) come invece succede regolarmente, per esempio, in Spagna dove nelle tipiche casas de comidas si trova sempre una proposta legata a pesci di ogni specie, anche quelli di minor dignità culinaria, come il merluzzo. E poi, proprio sulla questione della lavorazione degli alimenti, quindi per passare dal fresco al congelato, c’è da dire che l’industria della trasformazione del pesce implica il ricorso a macchinari e risorse che spesso le piccole-medie cooperative o consorzi di pescatori non possono permettersi”.

Fonte: internazionale.it/essenziale

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