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Facce da pubblicità: ecco come il vostro volto serve al targeting

Uno strumento online mostra come i nostri selfie sono fonti di informazione per le Intelligenze artificiali a supporto del marketing. Ci si può difendere da tanta invasività?

Facce da pubblicità: ecco come il vostro volto serve al targeting

Il nostro volto dice di noi molto più di quello che immaginiamo. Se le persone a noi vicine riescono a scorgere un nostro stato d’animo soltanto guard

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Il nostro volto dice di noi molto più di quello che immaginiamo. Se le persone a noi vicine riescono a scorgere un nostro stato d’animo soltanto guardandoci in faccia, ci sono Intelligenze artificiali (IA) che lo sanno fare in modo più approfondito e riescono a trarre conclusioni per la profilazione pubblicitaria.

Cosa dice il nostro volto

Dalle fotografie dei nostri visi possono essere evinte diverse informazioni, alcune più immediate, altre più elaborate. Genere, età ed etnia emergono con relativa facilità. Ceto sociale, attitudini e predisposizioni sono invece meno evidenti e possono indurre a deduzioni meno accurate. C’è un intero comparto di ricerca che esamina i volti per tentare di trarne il maggiore numero di informazioni possibili. Non è una scienza ma è capace di generare studi e tecnologie.

Provare per credere

La Swiss Digital Initiative, fondazione ginevrina che si spende affinché le tecnologie rispondano a valori etici, insieme alla scuola d’arte HEAD hanno creato lo strumento ADface mediante il quale ognuno di noi è in grado di comprendere quali informazioni possono essere evinte dal proprio volto.

Per prendere le misure con le capacità delle IA per questi tipi di profilazione è sufficiente abilitare il proprio browser all’accesso alla videocamera del computer e collegarsi al sito preposto al test, farsi immortalare e dare un’occhiata al risultato. Swiss Digital Initiative sottolinea che nessun dato viene raccolto né utilizzato per scopi non dimostrativi o ceduto a terzi. Dopo essersi collegati alla pagina occorre scorrerla fino in fondo e cliccare sul pulsante nero “Start ADface” e in seguito cliccare sul bottone “I agree to the terms and conditions” posto alla fine della pagina a cui si viene rediretti.

ADface usa una IA capace di esaminare i volti e profilarli per indirizzare alle persone annunci pubblicitari mirati. Le prove che abbiamo fatto appaiono perfettibili ma fa parte della logica di ADface: è un test, una dimostrazione. Aziende capaci di riversare risorse in queste IA possono ambire a risultati più precisi.

Quando la videocamera del pc ha finito di acquisire l’immagine del volto appaiono a monitor dei banner pubblicitari relativi a prodotti di nostro potenziale interesse (con un margine di errore ampio secondo i nostri test) e, dopo pochi secondi, viene mostrato un pulsante sul quale cliccare per leggere un breve resoconto del profilo evinto dal nostro viso.

Lo scopo di ADface

È uno strumento creato per rendere i consumatori più consapevoli della penetrazione delle IA che oramai collimano o si sovrappongono a molti frangenti del nostro quotidiano. Swiss Digital Initiative, da noi contattata per capire meglio quale sia il fine di questo tool, sottolinea che: “Lo strumento basato sul Web ADface utilizza l’intelligenza artificiale per analizzare il volto di una persona e creare un profilo utente per produrre annunci pubblicitari mirati che potrebbero adattarsi al profilo utente. Uno strumento semplice per dimostrare che l’IA è già profondamente radicata e influenza la vita di tutti i giorni. L’arte e il design possono essere un prezioso alleato per aumentare la consapevolezza e stimolare il pensiero critico sulle implicazioni sociali delle nuove tecnologie. Questo progetto serve come strumento per aumentare la consapevolezza dell’intelligenza artificiale nella vita di tutti i giorni. ADface mostra semplicemente un caso d’uso reale dell’IA in azione e porta in primo piano le questioni etiche, induce le persone a pensare e, si spera, ad approfondire la questione”.

Che le IA riescano a miscelarsi al nostro quotidiano è evidente, averne consapevolezza lo è meno. “Diventare consapevoli dell’uso del riconoscimento facciale e della pubblicità mirata è solo un primo passo. Per approfondire la comprensione delle tecnologie digitali, promuovere la fiducia e la responsabilità, l’iniziativa Swiss Digital vede in ADface un punto di partenza per una discussione più ampia sull’interazione tra le tecnologie digitali e la società” aggiunge Swiss Digital Initiative.

ADface non è un atto di sfiducia

Questo strumento non è stato concepito per indurre sfiducia o paura. Vuole contribuire affinché ognuno possa prendere le misure con le IA e le funzioni che svolgono: “Crediamo nel potenziale delle tecnologie digitali per la società ma chiediamo che le organizzazioni riflettano molto sulle conseguenze di determinate tecnologie, le questioni etiche associate e che utilizzino le tecnologie in modo responsabile e miriamo a sensibilizzare gli utenti e i consumatori affinché siano in grado di affrontare queste domande direttamente e prendere decisioni consapevoli nella sfera digitale”, spiega Swiss Digital Initiative che si spinge a un passo in più, auspicando un comportamento etico delle organizzazioni che fanno uso delle IA: “Sul sito del nostro progetto delineiamo alcuni primi semplici passi per gli utenti ma anche per le organizzazioni che offrono servizi digitali che possono intraprendere per lavorare verso un mondo digitale più responsabile ed etico. Per gli utenti si tratta di diventare curiosi, trovare aiuto e, attraverso l’educazione, acquisire potere. Per quanto riguarda le organizzazioni, devono facilitare la consapevolezza dei loro utenti essendo trasparenti su quali servizi e tecnologie utilizzano, come li usano e per quali scopi”.

La questione etica

Oggi fare shopping coincide sempre meno con il girare per negozi e sempre più con il collegarsi con siti web. Ci sono diverse metamorfosi in questo atteggiamento, la più importante riguarda la perdita di identità: perdiamo persino il ruolo fisico di acquirente. Non siamo più coloro che entrano in un negozio e chiedono alle commesse di provare diversi abiti prima di acquistarne uno (o, magari, neppure quello), così come non impersoniamo neppure il cliente educato e deciso che entra in un negozio, chiede un prodotto, lo paga, saluta ed esce. Ci esponiamo, online, a diventare uno dei tanti clienti di cui il venditore non ha una parvenza che non sia un nome, un cognome, un indirizzo fisico, un indirizzo Ip e un numero di carta di credito. Non più persone che entrano in un negozio ma consumatori incorporei che approdano a uno spazio virtuale, cliccano su uno o più prodotti per poi pagare.

La questione etica – che potrebbe richiedere centinaia di pagine per essere descritta – si può comprimere (ma non estinguere) in una domanda: quanto è lecito che la nostra “smaterializzazione” di individui iperconnessi autorizzi una tecnologia a evincere da noi stessi informazioni alle quali non ha accesso diretto? In altre parole: se la vendita online non prevede (né pretende) che il nostro volto sia visibile, perché deve diventare strumento di profilazione?

Non va confusa l’etica con ciò che sembra una prevedibile ed accettabile propaggine del web: i nostri profili sociali ci sostituiscono. Post, commenti, condivisioni e “like” sono il nostro pensiero e la nostra Weltanschauung, ossia il modo in cui guardiamo il mondo. Le recensioni che lasciamo online sono la nostra capacità critica. Tutto ciò è reso possibile dal nostro (consapevole o meno) avere accettato di essere online e di cedere le nostre informazioni a scopo pubblicitario. Va compreso quanto le informazioni deducibili dal nostro volto siano spunti di profilazione accettabile, senza limitarci ad accettare questa condizione come normale conseguenza, almeno non prima di esserci fatti le domande opportune e avere formulato risposte coerenti, sapendo che la nostra identità dà corpo alle opinioni che abbiamo di noi stessi. Tema complicato, denso di sfaccettature che non merita di essere preso alla leggera o archiviato con faciloneria.

Fonte: Repubblica.it

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