L'Etna, che si staglia a 3.357 metri sopra un milione di persone, è uno dei vulcani più monitorati della Terra. C'è una buona ragione se sulle sue pen
L’Etna, che si staglia a 3.357 metri sopra un milione di persone, è uno dei vulcani più monitorati della Terra. C’è una buona ragione se sulle sue pendici sono disseminati centinaia di sensori: è il vulcano più attivo d’Europa, e periodicamente erutta lava ed enormi pennacchi di detriti che costringono gli aerei ad atterrare e, più in generale, complicano la vita alle persone che vivono alla sua ombra.
Ora però gli scienziati hanno un nuovo e improbabile strumento per sorvegliare il vulcano: i cavi in fibra ottica, gli stessi che garantiscono la connessione a internet. In un articolo pubblicato di recente sulla rivista scientifica Nature Communications, alcuni ricercatori hanno spiegato di aver usato una tecnica nota come rilevamento acustico distribuito, o Das, per raccogliere i segnali sismici che i sensori convenzionali non riescono a rilevare. Il Das potrebbe aiutare a migliorare il sistema di allarme rapido su cui fanno affidamento le persone che risiedono nell’area dell’Etna. In tutto il mondo, milioni di persone vivono in balia dei vulcani attivi, che sono in grado di generare il caos a prescindere dalle loro dimensioni.
Il Das rappresenta una novità notevole nel mondo della scienza. All’epoca dell’espansione di internet, negli anni Novanta, le società di telecomunicazioni installarono più cavi in fibra ottica di di quelli necessari, dal momento che il materiale era più economico rispetto alla manodopera necessaria per posizionarlo sotto terra. I cavi in eccedenza sono rimasti inutilizzati, consentendo agli scienziati di noleggiarli per eseguire esperimenti Das. I cavi sono impiegati dagli ingegneri per monitorare la deformazione del suolo e dai geofisici per studiare i terremoti, mentre i biologi sfruttano i cavi sottomarini per raccogliere le vibrazioni generate dai richiami delle balene.
Le fibre ottiche trasportano dei segnali da un punto A a un punto B sotto forma di impulsi di luce. Se però il cavo è disturbato, per esempio, da un terremoto, una piccola quantità di luce viene rimbalzata alla fonte. Per misurare questo fenomeno, gli scienziati usano un “interrogatore“, che emette un laser attraverso le fibre e analizza ciò che torna indietro. Conoscendo la velocità della luce, i ricercatori sono in grado determinare i disturbi a varie lunghezze lungo il cavo: un evento che si verifica a venti metri di distanza farà rimbalzare una luce che impiega più tempo per raggiungere l’interrogatore rispetto a un fenomeno che accade a quindici metri.
Queste misurazioni sono estremamente sensibili. Per esempio, nella primavera del 2020, all’inizio del lockdown dovuto a Covid-19, gli scienziati della Pennsylvania State University hanno usato la fibra ottica inutilizzata sepolta nel campus dell’università per osservare come il movimento di pedoni e veicoli è prima diminuito e poi aumentato nuovamente. Sono riusciti anche a indicare la fonte del disturbo in superficie grazie alla frequenza delle vibrazioni: i passi umani si attestano tra uno e cinque hertz, mentre il traffico automobilistico tra i quaranta e i cinquanta.
La nuova ricerca si fonda sulla stessa idea, con la differenza che gli scienziati l’hanno applicata su un vulcano attivo. Dal momento che le società di telecomunicazioni non hanno mai installato la fibra ottica sull’Etna, i ricercatori hanno scavato un fossato lungo circa 1200 metri e profondo 15-25 centimetri per sotterrare i propri cavi, in prossimità del bordo del vulcano.
Nell’immagine qui sopra si può osservare il posizionamento del cavo in fibra ottica, i cui due rami sono rappresentati in bianco e nero (la linea rossa e quella gialla indicano invece le faglie). I puntini sparsi lungo le linee del cavo sono i luoghi in cui gli scienziati avevano installato sensori convenzionali, come i sismometri, che usano pendoli per rilevare i movimenti, e i geofoni, che convertono invece i movimenti nel suolo in segnali elettrici. I ricercatori hanno potuto così confrontare come le diverse tecniche monitoravano l’attività vulcanica.
L’immagine qui sopra mostra come appariva un’esplosione vulcanica (non un’eruzione completa) alla rete Das nel settembre 2018. Le stazioni di rilevamento sono indicate nella parte superiore del grafico. Il rosso e il blu rappresentano la velocità di deformazione a cui il cavo si allunga o si contrae in un dato momento, a intervalli di circa 1,8 metri. “I segnali permettono di stabilire se il cavo è allungato o contratto – spiega Charlotte Krawczyk, una geologa del Centro di ricerca tedesco per le geoscienze e dell’Università tecnica di Berlino, oltre che coautrice dell’articolo che riporta l’esperimento –. Con tutte le altre strumentazioni sismiche, non lo facciamo. Misuriamo l’accelerazione della superficie e cose del genere“.
La fascia verticale rossa e blu più scura in corrispondenza del punto C671 indica un aumento dell’ampiezza del segnale. Riguardando la mappa, si nota come C671 si trovi proprio su una faglia: “Questa è probabilmente una zona in cui la densità e la velocità del suolo è diversa“, racconta il geoscienziato Philippe Jousset del Centro di ricerca tedesco per le geoscienze, autore principale dell’articolo. Questo cambia il modo in cui l’energia si riverbera attraverso la terra e come il Das legge l’evento.
I cavi hanno rilevato anche altri eventi vulcanici, che i sensori convenzionali non hanno captato o hanno riconosciuto a malapena: per esempio, eventi di degassamento, in cui il vulcano emette un pennacchio di vapore acqueo e altri gas, come l’anidride carbonica. Le persone che si trovavano sull’Etna in quel momento hanno registrato il fenomeno in alcuni video. Il Das ha anche registrato “impulsi di singole scosse“, distinguibili dal degassamento per via della minore frequenza del loro segnale. Secondo ricercatori questi impulsi potrebbero essere dovuti al movimento di gas o di liquido in profondità, che a sua volta guida gli eventi di degassamento.
“Uno dei principali vantaggi del Das, che spesso tende ad essere trascurato, è che è in grado di rilevare eventi a molte frequenze diverse“, spiega il geofisico Ariel Lellouch, che utilizza la tecnologia all’Università di Tel Aviv ma non è stato coinvolto nello studio. Un sensore a infrasuoni, invece, capta solo suoni a bassa frequenza. Il Das, inoltre, richiede meno manutenzione: “La fibra se ne sta ferma, mentre i sensori tradizionali hanno bisogno di telemetrie, e a volte di batterie che vanno sostituite“, aggiunge Lellouch.
Secondo Marco Aloisi, che studia l’Etna presso l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia ma non ha partecipato alla ricerca, il Das potrebbe integrare i metodi tradizionali per il monitoraggio dei vulcani. Visto il numero di persone che vivono intorno al vulcano, l’Etna viene sorvegliato attentamente attraverso circa duecento stazioni di monitoraggio. Questa attività richiede però un molta forza lavoro, e meno tempo la gente passa su un vulcano attivo, meglio è. “La vera sfida è riuscire ad avere molte risorse umane e una tecnologia affidabile per consentire un funzionamento continuo dell’intero sistema“, dice Aloisi.
Il Das, invece, è un sistema più passivo: si posano i cavi e si aspetta l’arrivo dei dati. “In un certo senso, viene costruito un osservatorio sismico con la fibra – dice Lellouch –. Si potrebbe anche tornare dopo anni, a meno che la fibra non sia stata fusa da un’enorme eruzione“.
Una settimana prima dell’eruzione esplosiva dell’Etna nel luglio del 2001, per esempio, i dati raccolti dagli strumenti gps mostrarono che le stazioni di monitoraggio si stavano allontanando, un segnale del fatto che l’Etna si stava riempendo di magma dalle profondità del sottosuolo. Dal momento che all’epoca non esistevano sistemi di monitoraggio in tempo reale, gli scienziati impiegarono alcuni giorni per elaborare i dati e dare l’allarme (fortunatamente, in quel caso era noto fin dall’inizio che l’eruzione non avrebbe rappresentato una minaccia per le persone). Forse, spiega Aloisi, il Das potrebbe captare i segnali che i sensori convenzionali non registrano, affinando ulteriormente il sistema di allarme: “Questa tecnologia consente di rilevare segnali lievi, fornisce immagini strutturali dettagliate e offre una comprensione più acuta delle dinamiche alla base dei processi magmatici“, aggiunge.
Allarmi più rapidi consentono un’evacuazione più tempestiva, e quindi di salvare quindi un maggior numero di vite. “L’obiettivo è estendere il tempo a disposizione per avvertire le persone e aiutarle ad allontanarsi dall’evento – spiega Krawczyk –. Riuscire a capire meglio quali processi potrebbero rappresentare delle avvisaglie e indicare nuovi parametri per gli allarmi sarebbe una novità fondamentale“.
Fonte: Wired.it