Fonte: Antropia.it Più di ottant’anni sono trascorsi dall’8 settembre 1943 quando il governo italiano proclamò l’armistizio con le truppe angloameric
Fonte: Antropia.it
Più di ottant’anni sono trascorsi dall’8 settembre 1943 quando il governo italiano proclamò l’armistizio con le truppe angloamericane sbarcate nel sud della penisola nel mese di luglio di quello stesso anno. Solo due anni di meno, invece, è il tempo che ci separa dal 25 aprile 1945, data ufficiale della liberazione dell’Italia dall’occupazione nazifascista. Da allora, il tema della Resistenza e Liberazione è uno dei più controversi in Italia: un tema in grado di suscitare prese di posizione divergenti sul significato di fascismo e di antifascismo e la cui parziale rappresentazione continua a produrre detrimento al ruolo educativo della Storia.
È grave quando poi accade che il confronto su un tema così importante sia usato dagli interessi dell’agone politico, ancor più perché la distanza temporale da quegli accadimenti è ormai tale da privarci della memoria viva dei protagonisti e dal racconto esperienziale di coloro che quel pezzo di storia lo vissero sulla loro pelle.
L’edulcorazione avviene quindi in un contesto in cui i cittadini si allontanano sempre più dal ricordo personale, familiare ed affettivo, circostanza di per sé favorevole alla formazione del giudizio storico, ma ha anche luogo agli effetti di una perdita di consapevolezza che è solo in parte compensata dal riscontro critico offerto dai documenti accessibili. In questo ultimo caso, si tratta infatti di un’indagine di natura specialistica, limitata all’opera di studiosi e di esperti.
L’indifferenza e l’ignoranza sono nemiche della verità e alleate di chi usi il racconto subordinandolo a interessi particolari.
Il rischio è che quel trascorso fondamentale della nostra storia nazionale sia consegnato a una narrazione formale, quindi anche educativa e formativa, non scevra da vizi di verità non più rettificabili e che al popolo italiano sia quindi negata la possibilità di guardare al passato con partecipazione misurata e con obiettività di giudizio, prerogative necessarie per trarre autentico beneficio dagli ammaestramenti della storia.
L’adozione di una narrazione offuscata da difetti di veridicità o da un racconto parziale, tanto nei programmi educativi e scolastici quanto nella fisiologia di funzionamento dei corpi istituzionali dello Stato, così come nella percezione dei cittadini, crea le premesse per far subire alla Nazione profonde fratture sociali. Nulla di più deleterio vi è, infatti, nel non potere confutare con equilibrato spirito critico una qualsivoglia posizione apologetica e ideologica, a prescindere dalla parte da cui essa sia professata. Una circostanza che mina alle basi l’architettura democratica dello Stato e che crea le condizioni per una deriva demagogica divergente dall’afflato liberista che animò i padri costituenti quando, a neppure tre anni dal 25 aprile 1945, diedero luce alla carta fondamentale dei diritti e dei doveri dei cittadini italiani.
L’educazione e la cultura storica sono la linfa esistenziale della democrazia.
Il 25 aprile 1945 fu momento di svolta per la storia nazionale. Lo fu non solo per gli esiti del secondo conflitto mondiale, ma soprattutto per ciò che avvenne nei giorni, nelle settimane e nei mesi immediatamente seguenti l’8 settembre 1943.
In un clima che in taluni casi fu di conflitto fratricida, a partire dall’armistizio con gli angloamericani siglato il 3 settembre 1943 a Cassibile e diramato con il proclama Badoglio cinque giorni dopo, l’8 settembre appunto, il Paese si divise tra coloro che aderirono alla Repubblica Sociale Italiana (RSI) – costituita dopo che Benito Mussolini, imprigionato a Campo Imperatore a seguito della caduta del governo fascista il 25 luglio 1943, venne liberato da un colpo di mano dei tedeschi – e quanti sostennero il processo di liberazione dell’Italia dall’occupazione tedesca e dal giogo nazifascista.
Agli esiti della storia, secondo un giudizio assiologico oggi ampiamente riconosciuto, l’epilogo di quel periodo rappresentò la vittoria del bene sul male. Un’affermazione che nella sua perentorietà va tuttavia resa astenendosi da ogni forma di giudizio nei riguardi delle scelte individuali e personali, anche di quelle di coloro che optarono, con motivazioni che solo nella contingenza di quelle tragiche circostanze potrebbero essere valutate, per il campo opposto al bene. Tra le possibili ragioni di una scelta rivelatasi sbagliata vi fu in molti casi la tutela dei propri famigliari residenti nella parte occupata della penisola o il non voler accettare la disillusione di considerare nemici coloro che fino a poche ore prima erano, invece, alleati. Va anche aggiunto che per la causa della Resistenza e Liberazione, cioè per il campo del giusto, taluni operarono scelte non scevre da opportunistiche ragioni d’interesse o da bieche ritrattazioni dell’ultima ora.
L’armistizio dell’8 settembre suggellò quindi una profonda spaccatura tra gli italiani. Da un lato gli aderenti alla RSI, per la preservazione dello status quo dittatoriale, quindi cittadini cobelligeranti con le truppe germaniche in Italia, e dall’altro connazionali che animarono il moto di opposizione al regime nazifascista, a integrazione e a supporto dello sforzo bellico coordinato e condotto dagli angloamericani con il contributo di numerosi Paesi alleati.
Il processo di Resistenza e Liberazione ebbe numerose sfumature e le componenti che ne animarono gli eventi furono molteplici. Tra queste, le più riconosciute da un racconto frequentemente ripetuto ed enfatizzato dai media nazionali sono le formazioni partigiane: schiere paramilitari che operarono clandestinamente e che vennero alimentate e sostenute dalla collaborazione di molti cittadini e dai Comandi alleati che videro in quell’impegno una risorsa fondamentale a supporto dei loro piani militari
Per altre componenti, invece, il riscontro della conoscenza è stato meno evidente. Ed è proprio sulle componenti più marginalizzate dal racconto parziale che vorrei richiamare l’attenzione del lettore.
L’intento è quello di sostenere una narrazione che valorizzi lo spirito di un movimento che fu sì di popolo, almeno di una parte di esso come la resistenza partigiana evidenzia, ma che fu anche di Stato. Certo si trattava di uno Stato affranto, diviso e compromesso, ma uno Stato che ebbe la forza di riemergere dal doloroso atto armistiziale e di garantire un futuro di rinascita e di dignità al popolo italiano.
Oggi, finalmente a distanza di molti anni, si parla con giusta enfasi dell’Esercito Italiano che rinacque dopo l’8 settembre. Viva è la testimonianza della battaglia di Montelungo, dove ai soldati italiani venne riconosciuto il diritto di partecipare alla campagna militare non più solo con funzioni di supporto tecnico e logistico. Da quei fatti, si arrivò alla nascita del Corpo Italiano di Liberazione nel marzo del 1944, quale espressione istituzionale del ruolo equanime, seppur cobelligerante e non ancora alleato, del nostro Esercito. Analogamente, si documentano con desiderio di sempre più ampia divulgazione le vicende dei Gruppi di Combattimento, grandi unità di livello divisionale che si costituirono nel settembre del 1944 sulle pendici beneventane del Sannio e che, proprio in virtù del ruolo non subalterno meritato dall’Esercito Italiano con i fatti d’arme di Montelungo, combatterono nei mesi successivi al fianco delle truppe alleate per la completa liberazione della penisola.
A distanza di tanti anni, con un’operazione di promozione mai tardiva, l’Esercito Italiano ha voluto dare valore al ruolo delle unità militari italiane nella campagna di resistenza e liberazione raggiungendo, con la pubblicazione dei Calendari Esercito 2023 e 2024, anche il pubblico più generalista.
Dopo decenni di quasi oblio dell’opinione pubblica, la scelta editoriale dello Stato Maggiore dell’Esercito testimonia l’intento di voler “uscire allo scoperto”, abbandonando definitivamente l’imbarazzo provocato dalla sconfitta militare, rimuovendo il residuale senso di tradimento per gli accordi armistiziali e sfatando il pregiudizio di un possibile antimilitarismo in seno alla Nazione. Un sentimento, quest’ultimo, che risulterebbe ingiustificato alla luce dei principi fondamentali di diritto e di dovere voluti dai nostri padri costituenti che sancirono, senza se e senza ma, lo spirito repubblicano e democratico delle Forze Armate Italiane.
Il riconoscimento della partecipazione alla Resistenza e Liberazione di tanti uomini e donne in uniforme – occorre a riguardo rammentare il ruolo mirabile del Corpo Ausiliario delle Infermiere Volontarie della Croce Rossa Italiana – irradia di verità e di conoscenza anche il sacrificio di tanti Internati Militari Italiani (IMI) che furono detenuti nei campi di prigionia in Germania e in Italia settentrionale e che rifiutarono il beneficio della libertà personale. Libertà che sarebbe stato loro concessa se avessero accettato di aderire alla RSI. Si tratta di casi numerosissimi ai più sconosciuti (circa seicentomila di cui solo una minima parte, circa il 10%, accettò l’arruolamento nelle formazioni fasciste). A quei soldati il riconoscimento è dovuto al pari di quello concesso ai soldati combattenti delle unità del ricostituito Esercito Italiano e agli appartenenti alle formazioni partigiane.
Sfogliando allora le pagine del Calendario Esercito 2024, dedicato, per ogni mese, alle storie di servizio e personali di dodici Medaglie d’Oro al Valor Militare dell’Esercito “…prima e dopo l’8 settembre 1943”, emerge la figura del Capitano Gastone Giacomini, Ufficiale di fanteria italiano che combatté a fianco dei tedeschi e contro gli inglesi in Africa Settentrionale nella battaglia di Takrouna (21 aprile 1942) e che morì ucciso dai tedeschi combattendo insieme alle truppe inglesi nella battaglia per la liberazione della cittadina ravennate di Riolo Terme (10 aprile 1945). Il Capitano Giacomini era una dei tanti militari italiani, ma vi furono anche molti partigiani, che dopo l’8 settembre 1943 decisero di aderire alla campagna militare di Resistenza e Liberazione arruolandosi tra le fila del Gruppo di Combattimento “Friuli” (le altre formazioni di livello divisionale formatesi nel Sannio beneventano furono i Gruppi di Combattimento “Cremona”, “Folgore”, “Legnano”, “Mantova” e “Piceno”).
Il sacrificio del Capitano Giacomini è vivo modello di imparzialità rispetto al tema della Resistenza e Liberazione. Si trattò, in quel caso, di altissimo senso del dovere, anche a dispetto delle appartenenze che furono diverse e persino contrapposte. Quel dovere, sublimatosi nell’estremo sacrificio, fu nobile riflesso dell’etica del servizio e dei valori più rappresentativi della futura Nazione, a prescindere dal mutevole declinarsi del conflitto.
Se si guardasse al modello di imparzialità e di sacrificio offerto dal Capitano Giacomini ci si sentirebbe allora obbligati a evitare ogni forma di sterile strumentalizzazione e ci si avvierebbe, forse definitivamente, verso un percorso di riconciliazione su un tema centrale e non più edulcorabile della storia nazionale.