Si stima che una persona su cinque nel corso della vita svilupperà un cancro. Un triste record se ci paragoniamo alle altre specie di primati, che, al
Si stima che una persona su cinque nel corso della vita svilupperà un cancro. Un triste record se ci paragoniamo alle altre specie di primati, che, almeno in base alle evidenze disponibili, non sono così inclini a ammalarsi di tumore. Basti pensare che su 971 autopsie sui corpi dei primati non umani morti all’interno dello zoo di Philadelphia in Pennsylvania tra il 1901 e il 1932 solo in 8 esemplari furono trovate delle neoplasie.
Il nostro patrimonio genetico si differenzia da quello degli scimpanzé solo per l’1%. E oggi un team del Memorial Sloan Kettering Cancer Center di New York rivela su Cell Reports che tra quella manciata di differenze genetiche ce n’è una che potrebbe aver aumentato in modo significativo la nostra propensione a sviluppare tumori rispetto a quanto avviene negli altri primati. Potrebbe essere stato il prezzo da pagare per una maggiore fertilità.
Di differenze, a onor del vero, ce ne sono parecchie. Ma una in particolare ha attirato l’attenzione degli scienziati in quanto si verifica in un cosiddetto gene oncosoppressore (cioè un gene che, se funziona correttamente, ha funzioni protettive) e oltretutto in una sua regione particolarmente conservata nel corso dell’evoluzione dei primati. Il gene in questione si chiama Brca2 ed è molto noto alla scienza medica perché le sue mutazioni nell’essere umano aumentano in maniera considerevole il rischio di sviluppare tumori, in particolare al seno e alle ovaie.
I motivi per cui l’alterazione di Brca2 sia stata selezionata e si sia fissata nell’essere umano non sono stati appurati, ma gli scienziati ipotizzano che possano aver a che fare con il miglioramento della fertilità. Ci sono studi, infatti, che evidenziano come le donne con varianti di Brca2 legate a un aumento del rischio di cancro abbiano anche maggiori chance di rimanere incinte. Insomma, un compromesso evolutivo.
La scoperta apre molte prospettive di indagine e in futuro potrebbe portare anche a nuovi trattamenti oncologici, o – chissà – a un editing del gene.
Fonte: Wired.it