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Ecco perché trattare la carne come il carbone ci potrebbe salvare dalla crisi climatica

Economist: "La soluzione? Rinunciare alle bistecche, aprendo alle carni coltivate in laboratorio". Entro il 2030, potrebbero valere 25 miliardi di dollari

Ecco perché trattare la carne come il carbone ci potrebbe salvare dalla crisi climatica

Trattare la carne come il carbone potrebbe ridurre notevolmente le emissioni di gas serra, aiutandoci a combattere la crisi climatica. Lo dicono

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Trattare la carne come il carbone potrebbe ridurre notevolmente le emissioni di gas serra, aiutandoci a combattere la crisi climatica. Lo dicono gli esperti, lo dimostrano i dati. Ma convincere i consumatori a rinunciare alle loro tagliate per il bene del pianeta non è impresa facile. Così c’è chi aguzza l’ingegno e propone soluzioni alternative: carni coltivate in laboratorio, per esempio. Ma di questo parleremo più avanti.

Iniziamo col dire che c’è poco da stupirsi. Già nel 2019 il Gruppo Intergovernativo sul Cambiamento Climatico delle Nazioni Unite avevano stimato che il sistema alimentare globale fosse responsabile del 21-37% delle emissioni di gas serra (GHG, ovvero Greenhouse Gases). A tornare sull’argomento è stato un recente studio pubblicato su Nature Food, con numeri da capogiro. Più di 17 miliardi di tonnellate di CO2 l’anno: a tanto ammonta l’impatto ambientale della produzione di cibo a livello globale in termini di emissione di gas serra, secondo la ricerca.

Il 29% deriva dalla produzione di alimenti di origine vegetale mentre quasi il doppio, il 57%, è dovuto ai cibi di origine animale. A pesare sul bilancio – sottolinea il gruppo internazionale di esperti guidato dall’Università dell’Illinois a cui partecipa anche la divisione Statistica della FAO di Roma – sono soprattutto gli allevamenti bovini e le coltivazioni di riso, con il Sud America e il Sudest asiatico in testa alle regioni a maggiori emissioni.

Lo studio è il primo a tenere conto delle emissioni nette dei tre principali gas serra (anidride carbonica, metano e protossido di azoto) derivanti da tutti i settori delle filiere alimentari relative a 171 coltivazioni e 16 prodotti da allevamento. “Sebbene la CO2 sia molto importante, il metano generato dalle coltivazioni di riso e dagli animali e il protossido di azoto derivante dai fertilizzanti sono rispettivamente 34 e 298 volte più potenti nel trattenere calore in atmosfera”, spiega il primo autore dello studio, Xiaoming Xu. L’Economist specifica che gli allevamenti di bovini sono tra i più impattanti perché questi capi di bestiame emettono metano e hanno bisogno di ampi pascoli, spesso creati dalla deforestazione.

I dati, raccolti in oltre 200 Paesi del mondo intorno al 2010, dimostrano che i sistemi alimentari sono responsabili del 35% delle emissioni legate alle attività umane. In particolare, il 29% è dovuto alla produzione di cibi di origine vegetale (19% CO2, 6% metano, 4% protossido di azoto), il 57% si deve agli alimenti di origine animale (32% CO2, 20% metano, 6% protossido di azoto), mentre gli altri prodotti a uso non alimentare, come il cotone e la gomma, contribuiscono alle emissioni per il 14%. Grazie a questi dati, i ricercatori sono riusciti a creare un database pubblico che consente di stimare l’impatto ambientale delle varie attività del settore alimentare nelle diverse aree del mondo.

Considerando che la crescita della popolazione mondiale porterà ad aumentare le colture e gli allevamenti, così come l’uso di acqua, fertilizzanti e pesticidi, la lavorazione e il trasporto dei prodotti, i ricercatori auspicano che i dati ottenuti possano aiutare le persone ad adottare stili di vita e politiche che possano mitigare gli effetti dei gas serra, prima che il cambiamento climatico diventi irreversibile. “Rinunciare alle bistecche, dunque, potrebbe essere uno dei modi più efficienti per ridurre la nostra carbon footprint”, sintetizza l’Economist.

Ma quali sono le alternative? “Il modo più semplice per ridurre la produzione di carne bovina sarebbe che le persone iniziassero a mangiare altri animali o diventassero vegetariani. Ma convincere i carnivori a rinunciare ai loro hamburger è un compito arduo”, dice ancora l’Economist. Per questo stanno emergendo le carni coltivate in laboratorio, che potrebbero svolgere un ruolo essenziale nella lotta alla crisi climatica.

Non si tratta di fantascienza, ma di realtà. Mosa Meat, azienda olandese di tecnologia alimentare con sede a Maastricht, ha annunciato il suo primo hamburger di manzo sintetico già nel 2013. Mentre non lontano da Tel Aviv, in Israele, quasi un anno fa è stato inaugurato The Chicken, il primo ristorante a inserire pollo sintetico nel proprio menù. Nel dicembre 2020, Singapore ha approvato la vendita al pubblico di crocchette di pollo coltivate in vitro. E tantissime imprese innovative ormai fanno a gara per ideare prodotti a base di carne sintetica. Una delle sfide, visti gli elevati costi di laboratori, è l’accessibilità: basti pensare che sei anni fa l’hamburger prototipo è costato oltre 300 mila euro, oggi le stime parlano di 20 euro al chilo.

Visto che il nostro Pianeta non è più in grado di sostenere la produzione e il consumo intensivo di carne, l’industria della carne sintetica potrebbe farsi sempre più largo sulle nostre tavole, fino a diventare un business dal valore di 25 miliardi di dollari entro il 2030: lo sostiene la società internazionale di consulenza manageriale McKinsey & Company. Leonardo Di Caprio, attore premio Oscar e fervente ambientalista, ha di recente investito proprio sulla suddetta Mosa Meat e su Aleph Farms, altra azienda impegnata nella produzione di carne ricavata da cellule bovine modificate.

Ma non mancano le critiche. C’è chi sostiene che per cambiare davvero le cose bisognerebbe cambiare il nostro rapporto con la carne, e non il modo di produrla. Josh Milburn, esperto di filosofia del cibo, scrive che mangiare carne implica l’affermazione del senso di superiorità dell’uomo rispetto agli animali. Per andare oltre sarebbe necessario costruire un mondo in cui gli animali siano davvero liberi, senza aver bisogno di studiare modi alternativi per riaffermare la centralità della carne nell’alimentazione umana e nell’economia. In quest’ottica la possibilità di coltivare carne in laboratorio rischia di trasmettere il messaggio che, pur di non rinunciarvi, siamo disposti a studiare procedimenti molto complessi e molto costosi per replicarla.

Fonte: Huffpost

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