HomeLa Riflessione di Giancarlo Elia Valori

Il fallimento dei grandi giochi in Afghanistan dal sec. XIX ad oggi

Il grande gioco delle potenze occidentali in Afghanistan e il suo fallimento

Il fallimento dei grandi giochi in Afghanistan dal sec. XIX ad oggi

Ogni volta che grandi potenze hanno cercato di rendere l’Afghanistan una colonia, sono sempre state sconfitte. L’imperialismo britannico e la sua “mis

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Ogni volta che grandi potenze hanno cercato di rendere l’Afghanistan una colonia, sono sempre state sconfitte. L’imperialismo britannico e la sua “missione civilizzatrice” verso le popolazioni arretrate (e quindi terroristiche), missione pari a quella di quando s’imposero come primo pusher di droga all’Impero Cinese con le due guerre dell’oppio 1839-1842; 1856-1860: azione, questa sì, terrorista al massimo.

L’Impero Russo e la sua esportazione della fede ortodossa e dei valori dello zar verso gli afgani barari (e quindi terroristi). L’Unione Sovietica e il tentativo d’imporre la laicizzazione agli afgani musulmani (e quindi terroristi) nel periodo 1979-1991. Gli Stati Uniti d’America che pensavano di creare partiti, democrazia, Coca Cola, minigonne e case da gioco e di piacere, a suon di bombe ai terrristi tout-court afgani.

In questo articolo si cercherà di illustrare il perché l’Afghanistan abbia vinto 4-0, e nel 1919 – grazie alla saggia abilità dei propri governanti – risultasse uno dei soli sei Stati asiatici indipendenti de facto (Giappone, Nepal, Thailandia e Yemen); così almeno gli esperti da bar – che per loro natura credono che la Storia sia quella di Cenerentola e matrigna con sorelle cattive – riflettano sulle sciocchezze che udiamo ogni giorno su stampa e mass-media vari.

Sergio Romano nel suo libro I luoghi della Storia (Rizzoli, Milano 2000), a pagina 196 scrive: «Gli afghani passarono buona parte dell’Ottocento a giocare con le grandi potenze una partita diplomatica e militare – il “Great Game” – la cui regola principale consisteva nell’usare i russi contro gli inglesi e gli inglesi contro i russi».

Ai tempi in cui la geopolitica era una materia proibita e la parola vietata, nei testi di storia delle scuole medie superiori sembrava che gli Stati Uniti d’America e l’allora Unione della Repubbliche Socialiste Sovietiche fossero piovuti dal cielo così estesi come li vedevamo sugli atlanti. Ricordo ancora che nei dialoghi fra professori e studenti di liceo s’affermava che le due potenze non potessero dirsi coloniali, avendo in loro un che di messianico e riscattatore (quindi antiterrorista).

Solo grazie ai film western i ragazzi d’allora comprendevano come le tredici colonie luterane si fossero estese ad occidente in terre che ci davano ad intendere fossero state abitate da selvaggi cattivi da sterminare (quindi terroristi) e da spagnoli incivili in quanto cattolici, da sconfiggere. Inoltre non si osava far studiare l’espansione di Mosca a oriente e a meridione, a rischio che gli studenti liceali – sprovveduti, puri ed entusiasti – comprendessero come la patria del socialismo non avesse presupposti differenti da tutti gli altri imperialismi.

A volte gli studenti udivano del grande gioco o, in russo, tornei d’ombre (turniry teney).

Il grande gioco: e cos’era?

Oggi è perlopiù ricordato come epopea di libertà degli invitti popoli afgani, ma in realtà la sua soluzione significò l’allenza fra Mosca e Londra, che perdurò almeno alla vigilia della guerra fredda. Una posizione chiave a volte sin troppo trascurata e non solo nei testi scolastici di scientifico e classico, ma pure in molti saggi di autoproclamatisi esperti.

L’avversione britannica nei confronti dell’Impero russo – a parte le alleanze “necessarie” antinapoleoniche nella II, III, IV, VI e VII coalizione – datava al sec. XVII ed essa si aggravò notevolmente nel sec. XIX. E pur se le esportazioni russe di cereali, fibre naturali ed ulteriori colture agricole avevano come approdo la Gran Bretagna – in quanto i latifondisti russi erano ottimamente disposti a svolgere buone relazioni con gli inglesi, per meglio piazzare quei prodotti all’estero – non si ebbero miglioramenti politici. La contrarietà proveniva da Londra più che da San Pietroburgo.

Spesso lo zar Nicola I (1796-1825-55) sia sul finire degli anni Trenta del sec. XVIII, che nel corso del viaggio in Gran Bretagna nel 1842, ed in seguito nel 1850-52, ossia poco prima della guerra di Crimea (1853-56), tentò varie volte di addivenire ad una normalizzazione, però a causa di sospetti e dubbi britannici (che consideravano i russi terroristi) essa non ebbe sviluppi.

Ciò che preoccupava il Foreign Office – creato nel marzo 1782 – era la veloce marcia della Russia verso est, sud e sud-ovest. Londra sentiva il fiato russo addosso dai tre lati dell’India. Gli obiettivi russi in direzione di Istanbul, i successi nella Trancaucasia e gli obiettivi persiani, per non parlare poi della colonizzazione dell’Asia centrale, principiata dal suddetto Nicola I, e condotta con vigore dal successore Alessandro II (1818-55-81), erano per la diplomazia e i generali di Sua Maestà Britannica una palese e minacciosa intimidazione nei confronti della perla indiana.

A nord-ovest del Subcontinente indiano i possessi britannici confinavano col deserto di Thar e con il Sindh (il delta dell’Indo) che costituiva uno Stato musulmano sotto capi che risiedevano a Haidarābād, conquistata dagli inglesi nel 1843. A nord-est del Sindh, la regione del Punjab era stata raccolta in un forte Stato dal maharaja Ranjit Singh Ji (1780-1801-39), che da semplice governatore di Lahore (Lâhau) per conto dell’Emiro dell’Afghanistan, Zaman Shah Durrani (1770-93-1800-†44) era riuscito non solo a rendersi indipendente, ma ad estendere il suo potere anche sul Kashmīr e su Pīshāwar, creando l’Impero Sikh nel 1801, abbattuto dai britannici nel corso delle I (1845-46) e II guerra (1848-49) anglo-sikh; la regione diventò quella che è conosciuta come la pachistana Khyber Pakhtunkhwa (Provincia della Frontiera del Nord-Ovest).

Data l’espansione britannica nei vicini Stati dell’Afghanistan e della Persia, l’influenza della Russia cercava di insinuarsi, cosicché gli inglesi badavano con la massima attenzione a ciò che si svolgeva ai confini del grande “vicino” del Nord.

Da lungo tempo la Russia mirava ad aprirsi la strada verso l’India attraverso il Turkestan occidentale, ma tale regione di steppe era abitata dai kirghisi a nord-est e i turcomanni (turkmeni) a sud-ovest.

Dopo vani tentativi fatti per una penetrazione pacifica, il governatore russo di Orenburg, gen. Vasilij Alekseevič Perovskij (1794-1857), preparò una spedizione contro Chiva: si trattava di traversare circa mille chilometri di deserto e si credé di riuscirvi più facilmente durante l’inverno. La spedizione partì da Orenburg nel novembre 1839: ma il freddo uccise uomini e cammelli in numero elevato, al punto da indurre il comandante a rinunziare all’impresa e a tornare indietro (primavera 1840). Per lungo tempo i Russi là non tentarono più infiltrazioni militari.

In Persia, al contrario, l’influenza russa si faceva sentire notevolmente: lo zar Alessandro II spinse lo scià, Naser al-Din Qajar (1831-48-96), a un’impresa contro la città di Herāt (che dominava il passaggio dalla Persia e dal Turkestan occidentale nell’India): essa si era staccata dall’Afghanistan, e costituiva dal 1824 uno Stato a sé. La spedizione persiana fu iniziata nell’autunno 1837: Herāt resisté energicamente, tanto che nell’estate del 1838 lo scià dové rinunzia all’assedio ed accettare la mediazione dell’Inghilterra, per la pace, col sovrano di quella città. Così pure questa mossa diplomatica tornò a danno dell’influenza di San Pietroburgo. Anche i primi rapporti varati dalla Russia con l’Emiro dell’Afghanistan non approdarono ad alcuna conclusione. 

La Russia del resto in quegli anni era occupata a domare le insurrezioni delle popolazioni montane del Caucaso, in cui riecheggiano ancora le imprese del presunto sceicco italiano Mansur Ushurma (Giambattista Boetti, 1743-98) al servizio della causa cecena.

Per due trattati chiusi con la Persia (1828) e la Turchia (1829), la Russia era divenuta padrona della regione; però trovò una resistenza ostinata da parte delle popolazioni locali che perdura tutt’oggi.

La prima guerra anglo-afghana (1839-42) fu un conflitto militare fra i principali che si ebbero durante il grande gioco, e restò inoltre una delle peggiori disfatte subite dai britannici in quella regione. Gli inglesi avevano iniziato una spedizione nell’Afghanistan per abbattervi l’Emiro Dost Mohammad (1793-1826-39, 42-63), primo della dinastia Barakzai, e sostituirgli l’ultimo della dinastia Durrani, Ayub Shah (17??-1819-23, †37), che era stato detronizzato nel 1823, ma che rinunciò. Non volendo attraversare il Paese dei sikh per non destare diffidenze presso di essi, gli inglesi entrarono nel Belucistan, occuparono la capitale (Qalat), poi penetrati nell’Afganistan si avanzarono senza incontrare gravi resistenze sino a Kabul, dove installarono il 7 agosto 1839 un loro fantoccio, Shuja Shah (1785-1842), già Emiro dal 1803 al 1809.

Dost Mohammad fu preso e inviato a Calcutta. Ma sul principio del 1841 un suo figlio – Sher Ali – suscitò la ribellione degli afgani. Il comandante militare, gen. William George Keith Elphinstone (n. 1782), ottenne di poterne uscire con 4500 soldati e 12 mila non combattenti per ritornarsene nell’India; ma nei passi delle montagne nei pressi di Kabul, la spedizione fu sorpresa e annientata (gennaio 1842). Il comandante morì prigioniero degli afgani (23 aprile).

Naturalmente gli Inglesi vollero vendicarsi: inviarono altre truppe, che nel settembre dello stesso anno ripresero Kabul: questa volta gli inglesi, intimoriti, non ritennero opportuno restarvi. Persuasi di aver ribadito un certo prestigio si ritirarono, e poiché l’Emiro da essi protetto era morto proprio nel 1842 (5 aprile), acconsentirono impotenti che Dost Mohammad si rimettesse sul trono. Questi conquistò per sempre Herāt all’Afghanistan.

La Russia non stette a guardare e affermò il proprio potere nell’Estremo Oriente: negli anni 1854-58 – nonostante l’impegno nella guerra di Crimea: primo atto reale del grande gioco, in quanto Londra dové difendere l’Impero Ottomano dalle aspirazioni sarmatiche di conquista – essa aveva stabilito, con una serie di spedizioni, il dominio sulla provincia dell’Amur, attraverso il trattato ineguale – ossia imposto alla Cina – di Aigun il 28 maggio 1858. Poco dopo la flotta giunse a Tien-tsin (Tianjin), costrinse la Cina ad un altro trattato il 26-27 giugno, ottenendo l’apertura di porti per il commercio, e la permanenza di un’ambasciata russa a Pechino. Inoltre nell’Asia centrale la Russia rinnovava i tentativi di avanzata contro i canati di Buchara e Kokand (Qo‘qon), ed aveva indotto ancora una volta lo scià di Persia, Mozaffar ad-Din Qajar (1853-96-1907), a ritentare l’impresa di Herāt (1856), il che aveva provocato di nuovo l’intervento degl’inglesi (guerra anglo-persiana, 1856-57), chiusosi col riconoscimento da parte della Persia dell’indipendenza dell’anzidetta città. La rivalità anglo-russa continuava quindi ad essere uno dei problemi essenziali dell’Asia centrale, pure perché i russi man mano si espandevano verso il Turkestan occidentale, Buchara e Chiva fra il 1867 ed il 1873.

Il figlio di Dost Mohammad e suo successore, Sher Ali (1825-63-66, 68-79) dopo le conquiste russe nel Turkestan occidentale finì per subire l’influsso della potenza vicina la quale cercava di insinuarsi in zona ai danni di Londra. San Pietroburgo inviò il 22 luglio 1878 una missione. L’Emiro respinse un’analoga missione britannica al passo Khyber nel settembre 1878, provocando l’inizio della guerra. Ben presto gl’inglesi aprirono le ostilità, invadendo il Paese con 40 mila uomini da tre differenti punti.

L’Emiro andò in esilio a Mazār-i-Sharīf, lasciando erede il figlio Mohammad Yaqub (1849-79-80, †1914). Egli firmò il trattato of Gandamak il 26 maggio 1879 per evitare l’invasione britannica del resto del Paese.

Una volta che il Primo Residente inglese, l’italiano Pierre Louis Napoleon Cavagnari (n. 1841) si recò a Kabul, ivi fu assassinato il 3 settembre 1879. Le truppe britanniche organizzarono una seconda spedizione; occuparono la capitale; non si fidarono dell’Emiro; ed innalzarono un nipote di Dost Mohammed, Abdur Rahman (1840/44-80-1901), il 31 maggio 1880: questi s’impegnò a non avere svolgere relazioni politiche se non con l’Inghilterra.

L’ex Emiro Mohammad Yaqub prese le armi e sconfisse duramente gli inglesi a Maiwand il 27 luglio 1880, con l’aiuto dell’eroina afgana Malalai Anaa (1861-80) che chiamò a raccolta le truppe pashtun contro gli aggressori. Il 1° settembre dello stesso anno Mohammad Yaqub fu battuto e messo in fuga dal gen. Frederick Roberts (1832-1914) alla battaglia di Kandahâr, che pose fine alla seconda guerra anglo-afgana.

In tal modo l’Afghanistan entrò definitivamente sotto l’influenza della Gran Bretagna, che fu assicurata mediante la costruzione di una ferrovia dal fiume Indo alla città afgana di Kandahâr; e poiché la ferrovia attraversava il Belucistan, esso fu definitivamente annesso all’India britannica. Nel 1880 la Russia iniziò la costruzione della strada ferrata Transcaspica: il che allarmò i britannici i quali allungarono il tratto del proprio “cammino di ferro” sino ad Herāt.

Solo con la salita al trono di Imānullāh (1892-1919-29, †60), il 28 febbraio 1919 (scià dal 1926), l’Afghanistan sottrasse la propria politica estera alla Gran Bretagna attraverso la Terza guerra anglo-afgana (6 maggio-8 agosto 1919), con la quale gli afgani si sbatterono definitivamente fuori gli inglesi (trattato di Râwalpindî dell’8 agosto 1919, emendato il 22 novembre 1921).

Già nel 1907 il governo russo aveva dichiarato di considerare l’Afghanistan collocato fuori della sua sfera d’influenza, e si impegnò a non inviarvi alcun agente, ed a interpellare il governo inglese per le sue relazioni con quel Paese.

In realtà la Gran Bretagna rinunziò ben presto a controllare direttamente il Paese, dato il fiero spirito combattivo dei suoi popoli che più volte l’avevano umiliata, e si accontentò di sorvegliare e tenere a bada il confine nord-occidentale indiano.

In realtà il grande gioco non è mai finito. Come afferma Spartaco Alfredo Puttini (La Russia di Putin sulla scacchiera, in «Eurasia», A. IX, N. 1, Gennaio-Marzo 2012, pp. 129-147) al momento dell’arrivo al vertice del potere Vladimir Putin si è trovato alle prese con una difficile eredità. La politica gorbacioviana della – per meglio dire – katastrojka, aveva inflitto un colpo letale al colosso sovietico e poi soltanto-russo.

Nel volgere di pochi anni Mosca aveva intrapreso un disarmo unilaterale che la portò al ritiro dall’Afghanistan prima, dall’Europa centro-orientale poi. E mentre lo Stato si avviava al dissesto e l’economia veniva disorganizzata, era la stessa periferia dell’Unione Sovietica a prendere fuoco a causa di movimenti separatisti prontamente sovvenzionati da coloro che – nel grande gioco – hanno surrogato i britannici. I massicci aiuti statunitensi agli eroici patrioti antisovietici, che dopo furono bollati come terroristi.

In breve arrivò il crollo vero e proprio e la “neo” Russia si ritrovava rattrappita dal punto di vista geopolitico e moralmente nonché materialmente prostrata dal grande sacco compiuto dagli oligarchi filo-occidentali all’ombra della presidenza El’cyn.

Ad ovest il Paese era ritornato ai confini del sec. XVII, a meridione aveva perso il Caucaso meridionale e la preziosissima Asia centrale, dove di lì a poco sarebbe riniziato il nuovo grande gioco. Ossia il processo di disintegrazione non si sarebbe fermato, e avrebbe contagiato la stessa Federazione russa: la Cecenia aveva ingaggiato una furibonda guerra di secessione che minacciava di allargarsi a macchia d’olio a tutto il Caucaso settentrionale e in prospettiva metteva in discussione la stessa sopravvivenza dello Stato russo diviso in entità autonome.

Di poi il fenomeno dell’“orangismo” 2003-2005 (Georgia, Ucraina, Kirghizistan): le varie caricature di ossimoriche  rivoluzioni “liberali” atte ad allontanare alcuni governi dall’influenza moscovita.

In definitiva il potere centrale era stato minato da ogni lato dalla politica di El’cyn e del suo clan, mirante a concedere ampie autonomie alle regioni della Federazione. Il patrimonio pubblico, collante dell’autorità statale e strumento del suo concreto operare per orientare la nazione, era stato svenduto. Col tempo Putin ha posto riparo, ed il resto si condensa nelle scelte restauratrici del voto plebiscitario a suo favore.

Alla fine è giunto pure il fallimento statunitense in Afghanistan, sul quale mi sono intrattenuto in precedenti articoli.

Il senso di libertà asiatico si riassume nella cacciata di aggressori stranieri nelle proprie patrie e suoli. E questo assunto qualcuno dovrebbe iniziare a capirlo.

 

 

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