HomeInternational Banking News

Fare dell’ Ucraina un luogo di dialogo solo in modo neutrale

Un compromesso è certo necessario, se è “intelligente”, che salvi la faccia a tutti e non precluda la possibilità di lavorare a soluzioni ancora più delicate in futuro

Fare dell’ Ucraina un luogo di dialogo solo in modo neutrale

Un obiettivo complesso, forse un’utopia. I percorsi diplomatici e negoziali da perseguire con la massima tenacia per sbloccare la crisi con la Russia

Petrolio addio: ora in Medio Oriente si scommette sull’ intelligenza artificiale
Italmondo Spa e Transnatur: asse logistico Italia- Spagna
Il recente libro di Armillotta e Bagozzi. I GANEFO, i giochi mondiali contro l’imperialismo di Stati Uniti ed Unione Sovietica e il razzismo del CIO

Un obiettivo complesso, forse un’utopia. I percorsi diplomatici e negoziali da perseguire con la massima tenacia per sbloccare la crisi con la Russia potrebbero portare a un nuovo equilibrio e fare dell’Ucraina non un altro membro della Nato, né un satellite “post-sovietico”, ma il luogo di un nuovo dialogo tra le parti, possibile solo in un regime di neutralità. È uno sbocco difficile, certo, così com’è impervio oggi fare previsioni sull’evoluzione dello scenario, vista la sua complessità.

Sono tante, infatti, le motivazioni che si intrecciano nei comportamenti delle parti in causa, le cui radici affondano nella storia recente dell’area e nella geopolitica mondiale. L’Europa, che stenta drammaticamente a parlare con una voce sola, si trova a dover contribuire alla de-escalation, che l’ammassamento di truppe russe al confine est e sud-est rendono problematica, nonostante alcuni timidi segnali distensivi.

Eppure siamo tutti chiamati a fare qualcosa, perché mai come negli ultimi giorni siamo stati tanto vicini a un evento bellico di così devastante portata, dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Come si insegna alla mia Università, il primo passo per rendere plausibili gli sforzi diplomatici è comprendere le motivazioni delle parti attraverso un’analisi obiettiva del contesto e delle vicende che hanno portato alla crisi.

Trent’anni fa la fine dell’Unione Sovietica indusse i nuovi leader del Cremlino a ricostruire relazioni e condizioni di esistenza non solo della Russia, ma anche dell’immenso spazio occupato dalle Repubbliche ex sovietiche, per dare vita a un’area di influenza capace di sostenere il mantenimento degli asset strategici della vecchia superpotenza. Il mondo occidentale, per contro, iniziò a lanciare una massiccia politica di sostegno e attenzione verso queste aree. Non si trattava solo di potenziare il processo di unificazione tedesco, ma di ridisegnare la geografia e i confini che avevano caratterizzato la “guerra fredda”.

In questo sforzo non ci si è limitati alle politiche di vicinato, agli aiuti, ai piani di sostegno allo sviluppo. I fatti sono noti: nel mezzo degli anni ‘90 la devastante guerra del Kosovo. Nel 1999 Repubblica Ceca, Ungheria e Polonia entrano nella Nato. Nel 2004 è la volta di Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Romania, Slovacchia e Slovenia. Nel 2009 l’adesione di Albania e Croazia. A ben vedere un’accelerazione formidabile, che avrebbe potuto estendersi ad altri due paesi, confinanti con la Russia e strategici per le esigenze di sicurezza e l’immagine del nuovo corso di Mosca, fortemente nazionalista: la Georgia e l’Ucraina.

Che questa volta stesse per iniziare un’altra storia lo si capì, nel 2008, con la scommessa dei governanti georgiani di rafforzare il loro controllo in due regioni separatiste a maggioranza russofona, Abkhazia e Ossezia del Sud: l’intervento armato russo fu immediato. Come è noto, il meccanismo si ripeté nel 2014 a Kiev, quando il presidente filo-russo Yanukovych, regolarmente eletto nel 2010, venne spodestato dalla rivoluzione “arancione” supportata dall’Occidente. La risposta fu l’annessione da parte russa della Crimea, strategica penisola ucraina a grande maggioranza russofona.

In un suo saggio dell’ottobre di quell’anno, comparso sulla rivista Foreign Affairs, John Mearsheimer, un fine analista dell’Università di Chicago, invitava a non dimenticare una lezione realista, che, peraltro, affonda le sue radici in un caposaldo della geopolitica: “i grandi poteri sono sempre sensibili alle minacce che sentono vicine al loro territorio”. Penso che dovremmo riflettere, come occidentali. Siamo certi di non poter fare nulla per allontanare quella che viene percepita come una minaccia?

Il 21 gennaio scorso, in un’importante rivista di analisi strategica, Alexander Vindman, un ex alto ufficiale delle forze armate americane e già direttore per gli affari europei del Consiglio per la sicurezza nazionale, ricordava che non potremmo, né dovremmo, mai permettere che venga messo in discussione un caposaldo essenziale delle conquiste post-belliche: il diritto all’autodeterminazione dei popoli. Non si tratta di rispondere con l’ideologia alle crisi politiche, ma, anche in questo caso, a ben vedere, di essere realistici. Quanto potrebbe durare una pace basata sull’annichilimento delle aspettative della maggioranza?

Conosciamo esempi di comportamento che si fermano a un realismo di opportunità, piuttosto che strategico. Nel nostro caso significherebbe pensare soltanto – anche se non è poco – al prezzo del gas che dovremmo pagare se ci dimostrassimo troppo aggressivi verso le mire russe. Altri esempi, più utili per soluzioni di medio termine, potremmo trarli dalla scelta che in molti casi abbiamo fatto in virtù un’intelligente “real politik”, ignorando colpevolmente, in certi casi, il diritto internazionale.

Insomma, un compromesso è certo necessario, se non pensiamo che debba essere la forza delle armi a risolvere la questione Ucraina. Ma un compromesso “intelligente”, che salvi la faccia a tutti e non precluda la possibilità di lavorare a soluzioni ancora più delicate in futuro.

Fonte: Huffpost.it

Commenti