HomeInternational Banking News

La nuova Guerra Fredda del XXI secolo

Due potenze a confronto: difficile prevedere quale sarà il risultato della competizione in atto tra le due maggiori economie mondiali.

La nuova Guerra Fredda del XXI secolo

A giudicare dalla loro retorica e dalle loro azioni, gli Stati Uniti e la Cina, vale a dire le due maggiori economie mondiali, si stanno

Digital transformation: il 65% delle imprese italiane ha aumentato gli investimenti, ed è boom a livello globale +140%
Il web si sposta nello Spazio, le conseguenze tra geopolitica e mercato
Il mondo è in cyber guerra: ecco le nuove sfide per le aziende

A giudicare dalla loro retorica e dalle loro azioni, gli Stati Uniti e la Cina, vale a dire le due maggiori economie mondiali, si stanno chiaramente dirigendo verso un confronto strategico a lungo termine, o quella che potremmo definire la versione del ventunesimo secolo della Guerra Fredda. Il ritorno a un antagonismo tra grandi potenze rappresenta senza dubbio una tragedia geopolitica, ma retrospettivamente appare quasi inevitabile. La principale causa risiede ovviamente nel rapido cambiamento intervenuto nell’equilibrio di potere tra i due paesi, che ha condotto a un relativo declino degli Stati Uniti e al loro crescente timore di perdere l’egemonia mondiale a favore della Cina. Queste cifre impressionanti raccontano nel modo più efficace la storia della guerra fredda che si sta consumando tra Stati Uniti e Cina: nel 1992, l’anno successivo all’implosione dell’Unione Sovietica, il PIL cinese misurato in dollari era circa il 7 percento di quello statunitense, mentre oggi corrisponde circa al 65 percento. In altre parole, il divario di potere tra Cina e USA in termini di dimensioni della loro economia è oggi dieci volte inferiore rispetto a 27 anni fa.

A spingere i due paesi verso il conflitto vi sono sicuramente altri fattori. L’ascesa di Xi Jinping, un uomo forte con un’agenda globale ambiziosa e una smisurata propensione al rischio, ha portato all’abbandono della “grand strategy” adottata da tempo dalla Cina di mantenere un basso profilo sulla scena mondiale ed evitare a tutti i costi il conflitto con gli Stati Uniti. Le azioni di politica estera che contraddistinguono il presidente cinese, come costruire e militarizzare una serie di isole artificiali nel Mar Cinese Meridionale e lanciare un progetto infrastrutturale del valore di mille miliardi di dollari noto come “Belt and Road Initiative” (BRI), hanno avuto il solo effetto di convincere gli Stati Uniti che la Cina stia ormai sfidando apertamente la loro egemonia. I costanti attriti tra il capitalismo di stato di stampo cinese e il capitalismo di libero mercato statunitense hanno esacerbato ulteriormente le tensioni commerciali e ora minacciano di mandare in fumo gli scambi commerciali bilaterali da 660 miliardi di dollari tra i due paesi.

Conflitto di interessi geopolitici e valori ideologici

Considerato il fondamentale conflitto di interessi geopolitici e valori ideologici tra Stati Uniti e Cina, la loro rivalità strategica potrebbe non avere limiti di tempo e durare decenni. Sebbene possa ricordare la Guerra Fredda per alcuni tratti, come la corsa agli armamenti e l’affannosa ricerca di alleati in tutto il mondo, da un punto di vista qualitativo la competizione strategica sino-americana differirà dalla Guerra fredda sotto due aspetti fondamentali. In primo luogo, diversamente dalla Guerra Fredda, che mirava essenzialmente a contenere la minaccia militare terrestre dell’Unione Sovietica nei confronti dell’Europa occidentale e la minaccia nucleare nei confronti degli Stati Uniti, in termini geopolitici e militari la nuova “guerra fredda” tra USA e Cina assumerà principalmente le vesti di un conflitto navale nelle acque circostanti la Cina. Questo perché nessuno dei principali paesi confinanti via terra con la Cina, eccetto il Vietnam, è vincolato agli Stati Uniti da un trattato di alleanza o possiede armi nucleari. Ciò significa che è improbabile che Stati Uniti e Cina sprechino le loro risorse preparandosi a una vera e propria guerra terrestre. Al contempo, il predominio marittimo americano minaccia la sicurezza e le rotte commerciali cinesi. Questa situazione è particolarmente grave sul confine marittimo orientale della Cina, dal momento che gli Stati Uniti sono alleati del Giappone e della Corea del Sud e offrono un’implicita garanzia di sicurezza a Taiwan, considerata da Pechino una provincia ribelle.

Ma il predominio marittimo degli Stati Uniti e la loro rete di alleanze sono molto più deboli a sud della Cina. Tra i paesi del sud-est asiatico, le Filippine sono l’unico cui li lega un trattato di alleanza, mentre l’Australia, altro alleato americano, è decisamente troppo lontana. Cosa più importante, dopo la chiusura delle basi navali e aeree nella baia di Subic e a Clark, nelle Filippine, più di vent’anni fa, la presenza della Marina degli Stati Uniti nel Mar Cinese Meridionale è solo l’ombra di sé stessa. La relativa debolezza degli Stati Uniti in questa parte di mondo, insieme alle potenziali risorse energetiche del Mar Cinese Meridionale e alla sua importanza come rotta marittima cruciale per il commercio mondiale, fa del sud-est asiatico uno dei teatri fondamentali in cui si giocherà la competizione strategica tra Stati Uniti e Cina nei prossimi decenni.

La seconda differenza qualitativa tra il conflitto sino-americano in atto e la Guerra Fredda tra USA e Unione Sovietica è rappresentata dal ruolo della tecnologia. Con il mondo sull’orlo di un’altra rivoluzione tecnologica fatta di intelligenza artificiale, big data, comunicazioni wireless 5G e calcolo quantistico, si dà per scontato che chiunque guidi questa corsa con tutta probabilità otterrà vantaggi militari ed economici impareggiabili. Anche durante la Guerra Fredda l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti intrapresero una corsa tecnologica, ma a quell’epoca essa era esclusivamente limitata ad applicazioni di carattere militare. Oggi la competizione tecnologica tra USA e Cina è tanto commerciale quanto militare. In effetti, a giudicare dall’intensità della campagna di Washington contro Huawei, il colosso delle telecomunicazioni cinese in testa nella corsa verso il 5G, vi sono motivi fondati per affermare che la “guerra tecnologica” tra i due paesi nei prossimi anni si concentrerà più sulle applicazioni commerciali che su quelle militari.

La competizione strategica USA-Cina nel sud-est asiatico

Considerato che l’egemonia marittima e le reti di alleanza americane nel sud-est asiatico sono di gran lunga meno solide che nell’Asia nord-orientale, la Cina può sfruttare questa relativa debolezza a proprio favore nella competizione con gli Stati Uniti. I contorni della triplice strategia di Pechino nel sud-est asiatico si stanno delineando in modo più evidente. Il fronte più importante su cui si articola questa strategia è quello dell’impegno economico attraverso il commercio e gli investimenti. La Cina è il maggiore partner commerciale dell’Associazione delle nazioni del sud-est asiatico (ASEAN), che riunisce tutti i paesi della regione. Nel 2018, gli scambi commerciali bilaterali tra Cina e ASEAN hanno raggiunto i 587 miliardi di dollari, più del doppio di quelli tra USA e ASEAN nello stesso anno (272 miliardi di dollari). Gli investimenti diretti dalla Cina (e Hong Kong) nell’ASEAN sono stati pari a 19 miliardi di dollari nel 2017, quasi tre volte quelli degli Stati Uniti nella regione. Nel 2018, inoltre, dei 120 milioni di turisti stranieri che si sono recati nei sei principali paesi dell’ASEAN (Indonesia, Thailandia, Malesia, Vietnam, Filippine e Singapore), la quota maggiore, ovvero il 20 percento, proveniva dalla Cina. Ovviamente, integrando la propria colossale economia con quelle dei paesi del sud-est asiatico, la Cina spera di rendere molto costosa per questi paesi un’alleanza con gli Stati Uniti.

Il secondo fronte prevede l’intensificazione dell’attività diplomatica. Sfruttando la propria prossimità geografica, la Cina riesce a mantenere un fitto programma di visite di alto livello agli stati membri dell’ASEAN con l’intento di rafforzare i legami diplomatici. Il presidente Xi Jinping ha fatto visita a quasi tutti i paesi più importanti in seno all’ASEAN: Malesia e Indonesia a ottobre 2013, Singapore a novembre 2015, Cambogia a ottobre 2016, Vietnam a novembre 2017 e Filippine a novembre 2018.

L’ultimo fronte della strategia cinese punta a minare la credibilità degli impegni americani sulla sicurezza nella regione attraverso l’espansione della propria presenza militare e l’escalation di intimidazioni nei confronti di Vietnam e Filippine, i due principali contendenti nella disputa sul Mar Cinese Meridionale. Senza alcun dubbio, il passo più decisivo intrapreso dalla Cina consiste nella costruzione (e successiva militarizzazione) di alcune isole artificiali nelle aree contese del Mar Cinese Meridionale. Sebbene da un punto di vista militare l’utilità di queste isole sia probabilmente marginale nell’eventualità di uno scontro aperto con gli Stati Uniti (la potenza di fuoco americana non avrebbe difficoltà a distruggerle), non va sottovalutato l’impatto psicologico dell’espansione cinese. Dimostrando ai paesi dell’ASEAN che nemmeno gli Stati Uniti sono riusciti a impedire la costruzione e la militarizzazione di queste isole, Pechino ha inteso inviare a queste nazioni il messaggio che non dovrebbero contare sul fatto che in futuro gli Stati Uniti verranno in loro aiuto, dal momento che gli impegni di Washington si sono rivelati false promesse.

Il “pivot to Asia” di Obama e la svolta di Bush

A dire il vero, Washington aveva iniziato a reagire alla triplice strategia cinese nel 2010, quando l’amministrazione Obama aveva annunciato la dottrina del “Pivot to Asia”, o “svolta asiatica”. Tuttavia, i risultati conseguiti finora appaiono contrastanti.

Sul fronte economico, gli Stati Uniti avevano dato il loro supporto al Partenariato Trans-Pacifico (TPP), un accordo di libero scambio che aveva esplicitamente escluso la Cina. L’obiettivo strategico a lungo termine era quello di ridurre la dipendenza delle nazioni del sud-est asiatico dagli scambi commerciali con la Cina. Purtroppo, l’opposizione politica interna al libero commercio emersa negli Stati Uniti finì per ritardare la ratifica del TPP da parte del Congresso, e la prima cosa che Donald Trump fece insediandosi alla Casa Bianca dopo aver vinto le elezioni presidenziali del 2016 fu ritirare gli Stati Uniti dal TPP, abbandonando in questo modo il sud-est asiatico alla crescente influenza economica della Cina. Naturalmente, la posizione di Trump potrebbe modificarsi. Qualora l’escalation della guerra commerciale USA-Cina raggiungesse il suo apice, si può ipotizzare che gli Stati Uniti sarebbero tentati di rientrare nel TPP dopo le elezioni presidenziali del 2020. Anzi, un rientro nel TPP sarebbe addirittura più probabile nel corso del secondo mandato di Trump (che non dovrebbe più preoccuparsi di essere rieletto) che non da parte di una nuova amministrazione democratica.

In risposta al mancato impegno diplomatico durante il mandato di George W. Bush, l’amministrazione Obama ha dedicato maggiore attenzione all’ASEAN. Oltre ad aumentare il numero degli incontri ministeriali, il presidente Obama si è recato personalmente più volte nei paesi del sud-est asiatico (Indonesia a novembre 2010, Thailandia a novembre 2012, Filippine ad aprile 2014 e Vietnam a maggio 2016). Anche il presidente Trump ha visitato le Filippine e il Vietnam (rispettivamente, nel 2017 e nel 2018), i due paesi che hanno contestato con maggior vigore le pretese cinesi sul Mar Cinese Meridionale.

Sul fronte militare, la risposta americana alle azioni cinesi è stata discreta ma ferma. Washington ha intensificato le proprie operazioni di libera navigazione attorno alle isole costruite o occupate dalla Cina per contrastare le pretese di sovranità cinesi e sta pianificando esercitazioni navali congiunte su larga scala insieme ai suoi principali alleati (come Giappone, Australia e Regno Unito) per dimostrare la propria determinazione a respingere l’espansione cinese nel Mar Cinese Meridionale. Gli Stati Uniti hanno inoltre incrementato gli aiuti militari a Filippine e Vietnam e sottoscritto nuovi accordi per aumentare la presenza militare statunitense nelle Filippine allo scopo di scoraggiare ulteriori aggressioni cinesi.

È troppo presto per dire quale paese riuscirà a prevalere nella competizione strategica per il sud-est asiatico, dal momento che ciascuno di essi presenta vantaggi e svantaggi peculiari. Il punto di forza più prezioso degli Stati Uniti è dato dal desiderio della maggior parte dei paesi del sud-est asiatico che la potenza americana continui a fare da garante della pace nella regione. I loro principali punti deboli consistono invece nella “tirannia della distanza” e nel crescente isolazionismo, unilateralismo e protezionismo dell’amministrazione Trump. Per quanto riguarda la Cina, i suoi vantaggi più significativi sono la prossimità geografica e la forte capacità di traino del suo immenso mercato, tuttavia controbilanciati dal timore da parte dei paesi confinanti di subirne le prevaricazioni e il dominio. È dunque probabile che nell’immediato futuro si assista a una competizione inconcludente tra Stati Uniti e Cina su questa regione di primaria importanza, in cui la maggior parte dei paesi dell’ASEAN rifiuterà di schierarsi in un tale scontro tra titani.

La gara per il dominio tecnologico

Pur essendo in leggero vantaggio sugli Stati Uniti nella competizione per assicurarsi l’influenza sul sud-est asiatico, la Cina è chiaramente sfavorita nella corsa tecnologica, il secondo fronte della guerra fredda sino-statunitense in corso. Forti della loro posizione di leader mondiale in campo tecnologico, gli Stati Uniti sembrano avere poco da temere dalla Cina, che ha un quarto del loro reddito pro capite ed è considerata una nazione in pesante ritardo tecnologico.

Eppure, a giudicare dalla febbrile retorica di Washington sul famigerato programma “Made in China 2025” e l’accanita campagna contro Huawei, si ha l’impressione che gli Stati Uniti stiano perdendo terreno. Nel breve-medio termine questi timori potrebbero essere ingiustificati e senza alcun dubbio la supremazia tecnologica americana resiste sotto ogni profilo. Nel campo della ricerca di base, gli Stati Uniti continuano ad aggiudicarsi un numero impressionante di Premi Nobel nella medicina, nella chimica e nella fisica, mentre un solo scienziato cinese è riuscito a vincerne uno. Le università di ricerca americane rimangono le migliori al mondo e le aziende statunitensi dominano nei settori tecnologici di punta, come quelli dei nuovi materiali, delle biotecnologie, dell’aviazione, dei software e dei semiconduttori.

Tuttavia Washington fa bene a non dormire sugli allori, perché la Cina sta guadagnando rapidamente terreno. La rapida crescita dell’economia cinese consente ormai al paese di aumentare gli investimenti in ricerca e sviluppo: nel 2017, per esempio, la Cina ha destinato alla R&S 445 miliardi di dollari, cifra non molto inferiore ai 538 miliardi di dollari investiti nello stesso settore dagli Stati Uniti, il leader mondiale. In termini di talenti, la Cina può attingere a un vasto bacino di scienziati e ingegneri (anche se l’apertura degli Stati Uniti offre ancora un vantaggio competitivo considerevole nell’attrarre talenti di prim’ordine, a meno che la politica anti-migratoria dell’amministrazione Trump non distrugga questo vantaggio).

Mentre la Cina continua a ridurre il divario tecnologico nei confronti degli Stati Uniti, l’arena principale in cui si gioca il predominio tecnologico è quella delle tecnologie emergenti, come l’IA, il 5G e il calcolo quantistico. Ci sono due ragioni per cui tanto gli Stati Uniti quanto la Cina considerano queste nuove tecnologie cruciali per il futuro della propria sicurezza e della propria prosperità. In primo luogo, queste tecnologie sono dirompenti e in grado di modificare radicalmente il panorama della competizione economica e militare tra Stati Uniti e Cina. Chiunque riesca a portarsi in testa per primo potrebbe raccogliere enormi frutti e persino assicurarsi un’egemonia duratura. In secondo luogo, sebbene gli Stati Uniti godano di una superiorità consolidata in alcuni settori cruciali come quelli dei semiconduttori, dei materiali e dell’aviazione, il loro vantaggio sulla Cina nelle tecnologie di frontiera è relativamente esiguo, se non addirittura nullo, dal momento che gli scienziati e gli ingegneri dei due paesi sono grosso modo allo stesso punto di partenza. Ciò fa aumentare le probabilità che la Cina riesca a superare gli Stati Uniti nell’acquisizione di alcune tecnologie di frontiera (come pare sia il caso nel 5G, dove Huawei è in vantaggio rispetto ai suoi competitor occidentali).

La risposta americana a questi rischi si concretizza in una strategia specificamente mirata a impedire alla Cina l’accesso alle tecnologie di frontiera e che è già possibile vedere all’opera su più fronti. Uno di questi consiste nel restringere l’accesso di scienziati e studenti cinesi alle più prestigiose università americane rifiutando loro i visti o riducendone il numero. Il serrato giro di vite sullo spionaggio economico particolarmente focalizzato su scienziati e ingegneri di etnia cinese negli Stati Uniti ha anche lo scopo di tamponare sospettate fughe di segreti tecnologici a favore della Cina. Le nuove regole per le procedure di “national security review” attualmente rendono praticamente impossibile l’acquisto di società statunitensi con tecnologie avanzate da parte di enti cinesi. La campagna americana contro Huawei, che mette in campo un procedimento penale, pressioni sugli alleati per la messa al bando di Huawei dalle loro reti 5G e il potenziale divieto di accesso a tecnologie made in USA, mira a impedire al colosso delle telecomunicazioni cinese di dominare lo spazio 5G. A Washington si parla anche di riesumare il Coordinating Committee for Multilateral Export Controls (CoCom), comitato risalente all’epoca della Guerra Fredda, affinché gli Stati Uniti e i loro alleati possano lavorare a più stretto contatto per impedire alla Cina l’accesso a tecnologie avanzate.

Fonte: Eni.com

 

Commenti