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La “battaglia” Usa e Cina per Taiwan

La “battaglia” Usa e Cina per Taiwan

Se dovessimo contare gli anni in cui effettivamente Taiwan è stata sotto il controllo degli imperi cinesi allora prenderemmo in considerazione circa d

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Se dovessimo contare gli anni in cui effettivamente Taiwan è stata sotto il controllo degli imperi cinesi allora prenderemmo in considerazione circa due secoli, dal 1661 al 1895, quando l’isola a cui i portoghesi diedero il nome di Formosa fu territorio per un breve periodo dei Ming e poi dei Qing. Tuttavia, anche in questo periodo, le dinastie reggenti non nutrivano grande interesse per Taiwan: le cronache storiche riportano dichiarazioni in cui gli imperatori si riferivano all’isola al largo delle coste cinesi come ad un territorio extraterritoriale. Accadde ad esempio nel 1624 ai mercanti olandesi, quando venne suggerito loro dall’imperatore Tianqi di andare “oltre il territorio”.

Oggi uno degli obiettivi principali del presidente Xi Jinping è quello di completare la “riunificazione della Cina in una missione storica e un impegno irremovibile del Partito” – come ha detto nel centesimo anniversario dalla fondazione del Partito Comunista cinese celebrato in piazza Tienanmen. Portare a compimento l’unificazione con Taiwan entro il 2049, anno del centenario della Repubblica Popolare Cinese, e “sconfiggere qualsiasi tentativo che miri all’indipendenza di Taiwan” è il solo modo per superare il “secolo delle umiliazioni”, quel periodo che va dalla prima guerra dell’oppio (1839-1842) alla fondazione della Repubblica Popolare (1949) durante il quale la Cina perse la sovranità sui territori per mano delle potenze occidentali e dei giapponesi. Solo così la Cina potrebbe voltare pagina ed eliminare la traccia di quegli anni che per molti sono stati un trauma psicologico devastante – come scrive il giornalista e commentatore Deng Yuwen – da imputare all’incapacità dei dirigenti del Partito. Se Taiwan non venisse riconquistata, crollerebbe la retorica del presidente e lo spirito nazionalista da cui deriva l’appoggio al Partito. 

In questa partita Xi Jinping si sta giocando anche il suo ruolo storico. Sempre secondo Deng, se riuscisse in questa impresa, Xi supererebbe per importanza lo stesso Mao Zedong diventando il vero erede degli imperatori del passato. A quel punto gli oppositori interni al Partito diventerebbero nemici del popolo e non avrebbero più alcun margine per colpire il presidente. Per quanto sembri improbabile uno scontro armato nei prossimi anni – anche per una questione legata alle risorse militari insufficienti per fare fronte ad un eventuale intervento statunitense – difficilmente Xi lascerà andare Taiwan o affiderà il compito ad altri. 

Negli ultimi due anni, la frequenza di incursioni aeree cinesi sullo stretto di Taiwan e le crescenti pressioni militari hanno reso la zona del Mar Cinese Meridionale tra le più caldeL’ultima incursione è stata registrata il 24 gennaio, quando 39 aerei militari hanno sorvolato la zona aerea di sorveglianza a sud-ovest dell’isola in risposta ad una esercitazione congiunta Usa-Giappone del giorno precedente nel mare delle Filippine. 

Il primo maggio 2021, la copertina del settimanale The Economist titolava “Il posto più pericoloso al mondo” con sotto il profilo dell’isola di Taiwan al centro di un radar. In un’intervista alla CNN lo scorso ottobre, la presidente Tsai Ing-wen ha confermato la presenza sul territorio di contingenti di marines americani preposti all’addestramento delle truppe di Taiwan. L’isola, con la sua posizione strategica, ha chiaramente una rilevanza geopolitica per Pechino: vorrebbe dire avere un vantaggio difensivo e permetterebbe inoltre un accesso agevolato sulle vie marittime dell’Oceano Pacifico. 

Un altro dei motivi per cui, però, Taiwan è fondamentale per Cina e Stati Uniti è la sua centralità nell’industria dei semiconduttori. La sola multinazionale TSMC, fondata nel 1987 dal cinese specializzatosi negli Stati Uniti Morris Chang, detiene tra il 53 e il 56% del mercato mondiale di questa componente tecnologica imprescindibile per i dispositivi elettronici che utilizziamo. Automobili, velivoli, smartphone o playstation necessitano tutti di questi circuiti integrati il cui funzionamento è legato alla trasmissibilità del silicio, un materiale semiconduttore per l’appunto. Con una capitalizzazione di più di 600 miliardi di dollari, la TSMC ha superato la valutazione del colosso di Shenzhen, Tencent, società proprietaria di Wechat e di altre realtà di successo cinesi. Stati Uniti e Cina sanno di essere dipendenti da questa industria che nei decenni ha saputo specializzarsi e investire sempre più risorse nello sviluppo tecnologico. Per il 2022, TSMC ha pianificato una spesa tra i 40 e 44 miliardi di dollari (l’anno scorso è stata di 30 miliardi) e ha previsto insieme all’altra principale società produttrice di chip, Mediatek, l’assunzione di più di 10mila ingegneri. Tra i prossimi obiettivi c’è quello di produrre microchip da 3 nanometri, una sfida notevole se pensiamo che ci stiamo approssimando al raggiungimento dei limiti della legge di Moore, secondo cui la complessità di un circuito – che si misura generalmente dal numero di transistor al suo interno – raddoppia ogni 18 mesi. 

Stati Uniti e Cina sanno di essere rimasti indietro, una vulnerabilità che è diventata ancora più evidente con la carenza di semiconduttori degli ultimi due anni di pandemia. L’industria dei circuiti integrati è il paradigma di una filiera transnazionale “fortemente modulare”, perché costituita da stadi altamente complessi distribuiti in diversi paesi. Da qui ne deriva la complessità di riprodurre le otto fasi necessarie per produrre i chip a livello nazionale. Come viene spiegato in una recente ricerca della Banca Mondiale, in una catena produttiva modulare è molto complicato che subentrino nuovi attori in grado di superare know-how e capacità produttive di una realtà già strutturata. Inoltre, nel caso in cui ci sia un’interruzione della filiera, è anche potenzialmente più semplice individuare il punto in cui si può creare un collo di bottiglia. In un lungo articolo pubblicato da Nikkei Asia e ripreso anche dal Financial Times, viene “smontato” un modello di iPhone 13 e di ogni sua componente vengono individuate le aziende produttrici e i motivi per cui è stato sospeso l’approvvigionamento. Tra le cause elencate ci sono restrizioni energetiche in Cina, variazioni di prezzo di chip e altre componenti, ma anche lockdown in alcuni paesi del Sud-est asiatico, in particolare Malaysia e Vietnam.

Ora Stati Uniti e Cina vogliono colmare il divario. Il governo statunitense è riuscito a portare la TSMC in Arizona, dove ergerà uno stabilimento da 12 miliardi di dollari in grado di produrre dal 2024 chip da 5 nanometri. L’obiettivo è quello di costruire una fabbrica gemella a quella di Taiwan. I costi di un progetto simile sono difficilmente sostenibili da grandi aziende del settore del calibro di Intel, Nvidia, Broadcom o Qualcomm, anche perché un impianto simile richiede 21 milioni di litri al giorno di acqua e da aprile, quando è stato avviato il cantiere, ce ne sono voluti più di un miliardo. Inoltre, un impianto simile ha bisogno di una forza lavoro altamente qualificata, tanto che per un periodo si trasferiranno in Arizona ingegneri formati nella TSMC di Taiwan. Difficilmente, quindi, anche grandi società private sceglieranno di fare simili investimenti i cui profitti non arriverebbero negli anni immediatamente successivi. E seppur gli Stati Uniti siano stati il luogo di nascita e i produttori, trent’anni fa, di un terzo dei circuiti integrati per cui la Silicon Valley si guadagnò questo nome, negli anni le società tech statunitensi si sono spostate sempre più verso la progettazione, disegnando quindi i chip e lasciando campo libero nella fabbricazione a paesi come Taiwan, Cina e Corea del sud.  

Anche Pechino sa di essere rimasta molti passi indietro. In questi giorni è stato pubblicato il quattordicesimo piano quinquennale (2021-2025) nel quale sono contenute le caratteristiche principali del piano cinese per l’economia digitale. Come spiega Simone Pieranni su Il Manifesto, tra gli obiettivi contenuti nel piano c’è quello di rendere autosufficiente il paese per quanto riguarda i settori più strategici. In un contesto globale sempre più difficile, competitivo e insidioso – nel documento non vengono mai citati esplicitamente gli Stati Uniti – è necessario aumentare “la sicurezza della catena di approvvigionamento in settori chiave come 5G, circuiti integrati, veicoli a nuova energia, intelligenza artificiale e Internet industriale”. È della scorsa estate la decisione del presidente Xi Jinping di affidare il cruciale compito di accompagnare il paese verso l’autosufficienza tecnologica ad uno dei suo uomini più fidati, nonché viceministro, consigliere economico di rilievo e compagno delle scuole superiori di Xi, Liu He. Una possibile via da percorrere è quella di sviluppare chip di terza generazione, circuiti integrati che non si basano più sul silicio ma su altri tipi di materiali, anche per aggirare le sanzioni statunitensi. A settembre 2020, l’amministrazione Trump ha inserito, infatti, anche la Semiconductor Manufacturing International Corporation (SMIC), la società cinese più avanzata nella fabbricazione di chip, nella blacklist del Dipartimento del Commercio. Questo vuol dire che alle aziende statunitensi non è consentito esportare alcun prodotto alla SMIC e a molte altre società cinesi contenute nella lista. Il Pentagono ha spiegato che la restrizione è stata presa sulla base di un presunto legame esistente tra la SMIC e l’industria militare cinese. 

Le due potenze mondiali stanno cercando quindi di ricorrere ai ripari mirando all’autosufficienza dei circuiti integrati, perché – come dichiarato dal presidente degli Stati Uniti Joe Biden l’8 giugno scorso – la competizione del XXI secolo sarà quella dell’intelligenza artificiale dello sviluppo di microchip. Tuttavia, fa notare John Lee, analista e direttore dell’East-West Future Consulting, “data la natura fortemente transnazionale e compartimentata di questa industria così critica, un certo rischio per la sicurezza nazionale insito nell’interdipendenza con l’estero va messo in conto”. E vista la complessità, le ingenti spese da mettere in campo, le figure professionali da formare e il tempo richiesto per costruire un sistema che stia in piedi nei confini di unico Stato, nel futuro prossimo l’autarchia dei circuiti integrati sembra un miraggio per gli Stati Uniti come per la Cina. La Tsmc, e quindi anche Taiwan, rimane preziosa per tutti.

Fonte: Valigiablu.it

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