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Rivoluzioni poco colorate

Rivoluzioni poco colorate

Per gli appassionati di Risiko, il Kazakistan rientra tra quei Paesi che, al tempo dell’URSS, galleggiavano in un limbo geografico sconosciuto ai più.

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Per gli appassionati di Risiko, il Kazakistan rientra tra quei Paesi che, al tempo dell’URSS, galleggiavano in un limbo geografico sconosciuto ai più. Il crollo sovietico ha svelato l’esistenza degli “stan”, suffisso persiano associato ad estensioni geopolitiche tali da non potersi più considerare solo come parti di un’indistinta regione su cui riversare carri armati colorati.

Il Kazakistan, incastonato tra Russia, che si serve del cosmodromo di Baykonur, e Cina, è il più grande paese al mondo senza sbocchi sul mare, con frontiere porose, con un’estensione territoriale superiore a quella dell’intera Europa occidentale ma con solo 19 milioni di abitanti circa, di cui 3,5 di etnia russa.

Il Kazakistan, annoverato tra i Paesi sviluppati e con l’economia più forte della regione centroasiatica, è assurto all’onore delle cronache natalizie per la breve ma intensa sommossa che lo ha scosso.

Le sue ambizioni politico regionali trovano personificazione nella capitale Nur Sultan, già Astana, città che spicca nella steppa in un’area quasi desertica in cui le attività umane sfiorano livelli che si avvicinano allo zero; al sua architettura futuristica Sultan stride con il passato kazako quando, in epoca comunista, in quelle steppe o venivano destinati i prigionieri politici o venivano condotti esperimenti nucleari.

Il Kazakistan, che è e rimarrà parte integrante della russosfera, è rentier state capace di mantenere una posizione politica neutralmente multivettoriale, e dispone di quantità significative di preziose risorse naturali; di fatto occupa la 12^ posizione mondiale in quanto a riserve di petrolio, la 14^ per ciò che concerne il gas naturale che eguaglia le riserve di Canada e Kuwait visti anche i nuovi giacimenti scoperti nel Mar Caspio; la 2^ per la produzione carbonifera; la 1^ per l’esportazione di uranio2.

La flessibilità realista delle relazioni internazionali suggerisce a Washington di collaborare con Nur Sultan nonostante i problemi in tema di democrazia e diritti umani, a Mosca di fornire armi e alla Cina di permettere ai produttori agricoli kazaki l’accesso al suo mercato interno.

Malgrado il Kazakistan sia un hub energetico, l’autosufficienza in questo campo non è stata immediata; dopo l’indipendenza la produzione è calata a seguito di una forma aggressiva e caotica di privatizzazioni. Se da un lato queste risorse costituiscono la struttura portante dell’economia kazaka, dall’altro rendono il Paese vulnerabile agli andamenti del mercato energetico. Solo nel 2003 il Kazakistan è diventato esportatore diretto di gas e, dal 2013, anche di energia. La principale fonte di introiti kazaki perviene dal petrolio estratto principalmente nei tre campi nord occidentali di Kashaga, Tengiz e Karachaganak.

Il Kazakistan paga comunque l’assenza di sbocchi marittimi, fatta eccezione per il Mar Caspio, considerato estensione interna, cosa che rende la Russia zona di transito obbligatorio per il trasporto petrolifero e gasiero verso l’occidente. Da considerare come Mosca si avvantaggi nel regolare il prezzo delle risorse energetiche, oltre a coltivare un interesse strategico nel controllo dei rifornimenti verso Paesi come l’Ucraina, considerata come ricadente nella propria sfera d’influenza. Questo ha indotto Nur Sultan a guardare alla Cina, Paese in grado di soddisfare le esigenze di diversificazione commerciale.

Il Kazakistan rimane uno dei principali destinatari dei progetti infrastrutturali cinesi in ambito BRI, annunciata nel 2013 dal presidente Xi Jinping proprio ad Astana presso l’Università Nazarbayev, progetti incarnati dall’oleodotto di oltre 2.300 km che dal Mar Caspio arriva fino alla regione cinese dello Xinjiang.

Visto che Pechino sta investendo miliardi per l’energia rinnovabile atta a ridurre la sua dipendenza energetica, il Kazakistan non può permettersi il lusso di avere nemici, come è di certo controproducente qualsiasi forma di instabilità politica che minacci i piani di sviluppo; anche se oggetto di ingenti investimenti stranieri sullo sfruttamento degli idrocarburi, la crescita economica di inizio XXI secolo si spiega con aumento dei consumi ed espansione del settore edile e finanziario, ma non con la creazione di nuova ricchezza, elemento che spiega le disuguaglianze sociali ed economiche.

Come in tutta l’Asia centrale, il salafismo, qui in forma quietista che riconosce lo stato laico ma che non per questo suscita fiducia, è avvertito come forma di soft power confessionale saudita e contrastato dall’hanafismo sostenuto dallo Stato.

Governato per trent’anni da Nursultan Nazarbayev, dimissionato dalla presidenza del Consiglio nazionale per la sicurezza, il Kazakistan è passato nelle mani di Kassym-Jomart Tokayev, promotore di riforme politiche tuttavia mai avviate e di fatto latore di una stagnante continuità. Tokayev ha bagnato la presidenza con riforme di stampo liberaldemocratico ma di scarsa consistenza sostanziale, che hanno mantenuto intatto un elitario status quo.

Va detto che, fino a pochi mesi fa, il Kazakistan era considerato un’autocrazia progressista modello, un esempio di transizione di potere che aveva suscitato interesse e curiosità, pur persistendo l’aumento del costo del lavoro, una carente suddivisione della ricchezza, la corruzione, un sistema sanitario in sofferenza.

Con i suoi moti, il Kazakistan ha suscitato timori interessanti la stabilità regionale, visto che si tratta dell’ennesimo Paese oggetto di una rivolta e che ha invocato la clausola di protezione del CSTO, il Patto di difesa della CSI, che conferma Mosca quale esclusivo interprete della sicurezza d’area.

Il quadro dei regimi autoritari si è completato con la solidarietà a Nur Sultan da parte di Cina e Turchia, quest’ultima accomunata al Kazakistan dalla partecipazione al Consiglio dei Paesi turcofoni, ed a cui ragioni di opportunità connesse alla sua appartenenza alla NATO sconsigliano l’invio di truppe. Mentre il governo ha classificato le proteste tra i tentativi esogeni – ma non identificati – di colpo di stato, i manifestanti hanno ricondotto le contestazioni al carovita ed in particolare all’aumento del prezzo del GPL, venduto secondo le leggi di mercato conseguenti alla liberalizzazione, all’inflazione in aumento che ha penalizzato classe media ed operaia, ed all’attività energivora delle migliaia di società cinesi che, trasferitesi in Kazakistan, hanno perseguito l’estrazione informatica di criptovalute; il passo contro l’esecutivo è stato brevissimo, anche se sarebbe riduttivo limitare le considerazioni politiche a questi aspetti, forieri di scontri di classe, viste le disparità che marcano la realtà socio economica dall’interno.

L’era di Nazarbayev, autore di un patto sociale che ha retto per 30 anni, è così giunta al termine, lacerata da contestazioni diffusesi rapidamente in un Paese in cui il giovane mercato del lavoro è stato toccato duro dalla pandemia, dove l’ex capitale Almaty è diventata l’epicentro degli scontri, e dove si sono evidenziati sia la mancanza di una leadership ribelle centralizzata, sia l’effetto della pluridecennale repressione operata dal governo sull’opposizione.

Il dissenso si è indirizzato su due direttrici: da un lato il gruppo sociale più istruito e basato presso le due città principali ha mantenuto la presenza sui social network, almeno fino a quando il governo non ha iniziato a bloccare internet; dall’altro le classi meno abbienti scese in strada.

Se si dovesse designare un vincitore, la palma spetterebbe a Tokayev, scelto dall’anziano Nazarbayey per supervisionare la transizione di potere. Atto di saggezza? Sì, ma non quella immaginabile; di fatto il vecchio leader ha individuato un sostituto ritenuto non in condizione di nuocere al vecchio establishment rimasto avvinto alle leve di comando, confidando nella permanenza di uomini fedeli, come Masimov, tra i primi capri espiatori a cadere insieme al premier Askar Mamin.

Tokayev, che non si è fatto scrupolo di impartire l’ordine di sparare sui dimostranti, è riuscito a beneficiare del crollo del vecchio ordine, con una richiesta di aiuto esterno apparsa avventata ma prontamente mitigata dalla celerità delle operazioni condotte.

 

Il rapido rientro russo alle basi, ha certificato la capacità di Tokayev di impiantare rapporti concreti con Mosca, comunque soddisfatta sia dall’aver preservato il regime kazako, sia dall’aver dimostrato l’efficienza dell’aiuto fraterno del CSTO.

L’esperienza ha insegnato che nell’ex spazio sovietico le proteste non conducono mai a riforme ma a nuove repressioni, come in Bielorussia e nello stesso Kazakistan, teatro dell’intervento dell’esecutivo nella città di Zhanaozen già nel 2011 per le difficili condizioni di lavoro negli impianti petroliferi.

Da non sottovalutare le proteste aventi ad oggetto il rapporto asimmetrico con la Cina, sostanziatesi contro la dipendenza da Pechino, che ha comunque posto in decremento gli investimenti kazaki; contro la presenza di imprese, personale e merci cinesi associate sia allo scambio di greggio con tecnologia; contro la temuta persecuzione degli uiguri nello Xinjiang; contro l’erosione di sovranità.

Non c’è dubbio che la Cina, che intrattiene rapporti con i produttori di greggio del Golfo Persico, è Paese al momento in grado di fornire spunti economici non nelle corde di Mosca, più votata agli aspetti bellici, come non c’è dubbio che Pechino tema l’instabilità kazaka quale potenziale minaccia per importazioni di energia, progetti BRI, e sicurezza dello Xinjiang, regione unita al Kazakistan da un confine di 1.770 km; non a caso il Dragone si è offerto quale scudo a protezione da interferenze ed infiltrazioni esterne, soprattutto se aventi le sembianze di una rivoluzione colorata, ed in considerazione della situazione afghana, punto dolente della politica estera statunitense, con Washington chiamata ad aumentare la sua presenza in Asia centrale in competizione con Mosca, che gioca su un terreno decisamente più favorevole.

Anche la Turchia rientra nell’agenda del Kazakistan, vista la posizione geostrategica che porta Nur Sultan ad essere un trampolino verso il nord russo, l’est cinese ed il sud turkestano; non a caso Ankara sta conducendo una politica basata sul panturchismo e sulla comune identità culturale che porta ambedue i Paesi sugli scranni del Consiglio Turco, battuto politicamente sul tempo dal realismo kazako-moscovita, ed economicamente dalla tempesta che sta flagellando la Turchia.

A fronte dell’interventismo russo, l’inerzia politica di UE e UN, che non hanno saputo proporre nulla di fattivo ed immediato. Anche l’Italia gusta la sua fetta di preoccupazione, stante il partenariato economico che la pone al terzo posto nella classifica dell’interscambio commerciale kazako dopo Russia e Cina, ma in inane posizione diplomatica affine a quella multilateralista e scarsamente incisiva dell’UE.

Le proteste non porteranno ad un cambio di regime, ma ad un mutamento della postura politica estera kazaka, che si troverà attratta dalla linea filorussa di Tokayev. Il Cremlino volge dunque il suo sguardo a est, immedesimando il Kazakistan al braccio orientale della tenaglia geopolitica occidentale, in un contesto che vede l’ovest atlantico attraversato da crisi interne, ed un teatro centro asiatico segnato dall’attrito azero-armeno.

Le proteste si accompagnano a diverse possibili cause; al di là delle non comprovate presenze straniere, che però hanno giustificato l’intervento del CSTO, si evidenziano contrasti tra gruppi dirigenti di vecchia e nuova generazione, tra le cui pieghe Tokayev ha dimostrato un’insospettata scaltrezza. Con un’infoware propagandistica in corso, la regola del sospetto rende impossibile analisi obiettive, che rimangono viziate da cortine fumogene e giochi di specchi. Le proteste non sono quindi espressione di uno sporadico ed isolato malcontento, quanto l’indicatore della ricerca di una mobilitazione politica capace di ristabilire il patto sociale. In quest’ottica si pone il ritorno russo, preferito ad un pervasivo affacciarsi cinese.

Gli egemoni regionali non intendono lasciare un Kazakistan fonte di turbolenze: per questo basta l’Afghanistan; ulteriori interferenze indurrebbero interventi moscoviti atti a ridurre rischi securitari, con Pechino acquiescente sulla divisione delle zone d’influenza asiatico centrali. Non si possono dimenticare le striscianti rivendicazioni territoriali: per la Russia il Kazakistan è una creazione di Nazarbayev, per la Cina il controllo del Dragone sul territorio kazako è cosa conclamata.

Due note di colore: le partenze immediate verso lidi più tranquilli da parte dei kazaki abbienti, e la considerazione – a mezza bocca – di quanto potrebbe accadere domani nelle piazze di chi, oggi, ha offerto aiuto.

Fonte: Difesaonline.it

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