A Glasgow, a partire dal 31 ottobre, si terrà il summit mondiale sulla crisi climatica. Russia e Brasile non ci saranno, mentre la presenza del lead
Insomma, la Cop26 non è ancora iniziata, ma ci sono già delle serie difficoltà. Anche perché se paesi così importanti non avranno i propri leader a rappresentarli al summit sul clima, la conseguenza diretta è che anche altri stati che da questi pesi massimi dipendono economicamente o politicamente, saranno incentivati a disertare o non prendere impegni vincolanti e coraggiosi.
Per capire l’importanza della Cop26, e di conseguenza della presenza dei leader mondiali in persona, vale la pena andare a vedere cos’è, tecnicamente, questa Cop26. Non è infatti solo un summit dal valore simbolico, ma un luogo in cui esistono i presupposti per prendere decisioni, e renderle effettive con accordi vincolanti.
Partiamo dall’inizio: la Cop è una riunione annuale a cui partecipano i leader dei paesi che fanno parte dell’Unfccc (cioè la convenzione delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici). Parliamo di un organo dell’Onu dedicato specificamente ai problemi climatici e ambientali, un organo che – visto il progressivo aggravarsi del riscaldamento globale e, di conseguenza, delle preoccupazioni dell’elettorato in questo senso – ha assunto sempre maggiore rilievo e visibilità.
Da qui viene l’importanza della presenza dei leader, quella a cui faceva riferimento lo slogan scritto in stampatello sul bus dagli ambientalisti in piazza a Bruxelles. Se i leader ci sono, contribuiscono a dare visibilità a questi temi e, ovviamente, a trovare delle soluzioni. Se lo disertano, al contrario, remano nella direzione opposta: fanno sì che ci sia meno visibilità, meno partecipazione e meno interessamento in patria, quindi meno possibilità di trovare soluzioni congiunte.
Sono 195 i paesi che fanno parte dell’Unfccc, ma alcuni blocchi politici hanno un peso estremamente maggiore di altri. Reuters di recente ha stilato una lista dei blocchi politici che avranno un ruolo determinante alla Cop26. Alcuni li abbiamo già visti: Cina, Russia e Brasile. E sono quelli che al momento sembrano meno interessati a rendere il summit proficuo.
Un altro gruppo di stati è composto Unione Europea, Stati Uniti e Regno Unito. Si tratta dei cosiddetti “paesi occidentali”, che oggi hanno in comune tre cose: hanno gli elettorati più interessati ai temi ambientali, dichiarano di volere il successo della Cop26 e hanno un peso politico e diplomatico tale per cui possono effettivamente riuscirci. Questi tre punti in comune li mettono anche, inevitabilmente, in competizione tra loro: la transizione ecologica infatti è un’occasione per essere dei leader morali, paladini di ciò che è giusto, ma anche un’occasione di trasformazione economica e industriale densa di conseguenze.
Ci sono anche altri blocchi politici che avranno un peso a questa edizione della Cop. C’è l’AfriC’è l’Africa Group, composto dai membri africani delle Nazioni Unite, che si prefigge l’obiettivo di aumentare gli aiuti finanziari per la transizione ecologica dedicati ai paesi in via di sviluppo. C’è la cosiddetta “High ambition coalition” (letteralmente «coalizione con grandi ambizioni») di cui fanno parte Stati Uniti, Unione Europea e Costa Rica. C’è poi il gruppo di 38 piccoli stati insulari, come Tuvalu e Seychelles, che sono i più minacciati in assoluto dall’innalzamento del livello dei mari e che rischiano di sparire entro pochi anni, e per i quali quindi un evento come la Cop26 è determinante per non diventare degli ex stati visitabili solo dai sub o da chi fa snorkeling in vacanza. L’ultimo, ma forse il più influente, dei blocchi politici non convenzionali che prenderà parte al summit è quello delle “Least Developed Countries” (Ldcs), cioè l’insieme delle 46 nazioni più povere della Terra. In questi 46 paesi vivono oltre 1 miliardo di persone distribuite tra Africa e Asia ed è difficile trovare qualcuno che abbia più ragioni per avanzare pretese dalla Cop26: sono le nazioni che più subiscono le conseguenze dei cambiamenti climatici, e allo stesso tempo quelle che contribuiscono meno a causarli.
Tutti i blocchi politici che abbiamo citato hanno tra loro rapporti diversissimi, sia dispute che legami di collaborazione storici, ed è evidente che avranno – e hanno già oggi – un peso nelle negoziazioni. Ci sono collaborazioni economiche e politiche ma anche competizioni, inimicizie, possibilità di dialogo minate da guerre presenti e passate.
Ma lo scontro che rischia di minare la buona riuscita della Cop26 è soprattutto quello tra Cina e Stati Uniti. In questo momento le due superpotenze competono su vari fronti: il più ovvio è quello industriale ed economico, visto che parliamo dei due paesi con il Pil e il settore tecnologico più importanti. Di terreni di scontro però ce ne sono molti altri, compreso quello militare, che oggi si nota soprattutto nelle tensioni a Taiwan. Il punto è che Cina e Stati Uniti sono anche i primi due paesi al mondo per emissioni: il primo è la Cina, lo dicevamo, con circa 10 miliardi di tonnellate emesse ogni anno, e subito dopo vengono gli USA con 5,4 miliardi. Se sommiamo le emissioni di gas serra delle due superpotenze otteniamo oltre il 40% di quelle globali.
Per questo serve, necessariamente, un dialogo e una collaborazione tra Washington e Pechino almeno sui temi ambientali. E, sempre per questo motivo, la Cop26 è appesa a un filo. Se la questione ambientale diventasse, più che un tema su cui collaborare, un ennesimo tasto dolente delle relazioni tra est e ovest del mondo, allora non fallirebbe solo questa Cop, ma anche qualsiasi altra possibilità di limitare a breve il riscaldamento globale e le sue conseguenze.
Fonte: Linkiesta