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Quanto vale davvero il PNRR in Italia?

Lo strumento messo in campo dall’Ue per rispondere alla crisi potrebbe non essere incisivo come raccontato. Problemi di quantità e qualità della spesa, con lo spettro delle regole dietro l’angolo.

Quanto vale davvero il PNRR in Italia?

Il maltempo ha portato la pioggia nell’Ue, ma non una pioggia qualsiasi, quella di miliardi. Così almeno è stato detto in Italia da alcuni politici e

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Il maltempo ha portato la pioggia nell’Ue, ma non una pioggia qualsiasi, quella di miliardi. Così almeno è stato detto in Italia da alcuni politici e media. Piovono miliardi, eppure siamo più o meno ancora asciutti. Come i Cherokee, per far piovere bisogna fare la danza della pioggia o un qualche rito propiziatorio. Nel nostro caso, il rituale è racchiuso nel «fare le riforme». Chi non fa le riforme, non riceve i fondi. Ma quanti sono questi soldi? Come vengono erogati?

Ma a prescindere dalla quantità e dal modo in cui vengono distribuiti, questi soldi non sono un regalo e non verranno spesi senza effetti collaterali. Scopriamo quali sono i possibili problemi dietro al Next Generation Eu (anche chiamato Recovery Fund).

Quanto vale il PNRR?

Una parte di questi soldi sarà raccolta con un meccanismo a saldo nullo in stile bilancio europeo, il resto emettendo titoli. Anche all’Italia spetta una parte. Il dato di partenza è l’ammontare dei fondi: la somma contenuta nel PNRR è di 191,5 miliardi circa 120 sono prestiti, i rimanenti sono invece definiti «a fondo perduto».

Sul fondo perduto

68,9 miliardi a «fondo perduto» fanno parte di quelli che l’Ue raccoglierà col meccanismo a saldo nullo: ogni stato membro, in percentuale del PIL, contribuirà con una certa somma e ne riceverà un’altra indietro. Banalmente, se quest’ultima è minore, lo Stato sarà contributore netto; in caso contrario, sarà beneficiario.

Questi soldi saranno raccolti dall’Uefa attraverso le tasse. Va rilevato che il progetto di un fisco europeo non è visibile, se non per la Plastic Tax, che è però irrilevante a livello macroeconomico. Sono più i problemi con i paradisi fiscali delle concrete collaborazioni europee sul piano fiscale. Ergo, quando parliamo di tasse, parliamo di tasse nazionali (anche perché la cosiddetta politica fiscale, ossia decisione su tassazione e spesa pubblica, è competenza degli Stati membri, non Ue).

L’Italia da sempre è un Paese contributore netto. Nel caso del Recovery, però, si ritroverà, per via dei danni ingenti della pandemia, a essere beneficiario netto. Tuttavia, tolto il Recovery, rispetto al normale bilancio europeo dei prossimi 7 anni, l’Italia resterà contributore netto. Il saldo tra queste due posizioni sarà di circa 10 miliardi. Non proprio una pioggia torrenziale.

Sui prestiti

I prestiti sono 122,6 miliardi e sono ritenuti positivi in quanto il tasso di interesse a livello europeo è più basso di quello italiano. Il cosiddetto differenziale, tuttavia, ci consentirà di guadagnare circa mezzo miliardo l’anno, per un totale di 3 miliardi nei 6 anni in cui opererà il Recovery.

I problemi tecnici del PNRR

Oltre al fatto che non è un regalo ma va restituito – che tradotto, come detto, significa più tasse -, ci sono una serie di problemi tecnici, di dettagli che non sono stati approfonditi più di tanto, prediligendo l’esaltazione per l’imminente arrivo di denaro. Ripercorriamo velocemente quali sono le possibili complicazioni.

Le riforme porteranno la crescita?

Lo schema è ormai vecchio: si fanno le riforme, (se funzionano) si crescesi ripaga il debito con la crescita. Ed effettivamente è la crescita il problema. Come si è detto anche che dipende tutto da come spendi i soldi, non da quanti ne spendi. E si può essere d’accordo anche su questo, ma fino a un certo punto.

Nel seguire la direzione green e digital, potrebbe risentirne la nostra bilancia dei pagamenti. L’Italia è importatore netto nel settore digitale. Se con le riforme e le nuove spese dovesse aumentare l’offerta italiana, ma meno della domanda (che sta crescendo molto, visto che a tutti è richiesto di digitalizzarsi), il risultato sarebbe un aumento della dipendenza dall’estero e il danneggiamento di una bilancia dei pagamenti attualmente solida.

Problemi non meno rilevanti ci aspettano sul terreno della transizione ecologica, che «non sarà un pranzo di gala», come ha ammesso il Ministro Cingolani. Senza le giuste misure di tutela per il tessuto economico, si rischia, nel mondo non più vecchio, ma non ancora nuovo, di subire – come già sta avvenendo – una grave crisi energetica.

Basterà l’ammontare di denaro che riceverà l’Italia?

Dimentichiamo i problemi delle riforme e assumiamo che producano crescita, o comunque producano un ambiente fertile per crescere; posto, insomma, che siamo tutti green e digital. Ebbene, messo da parte il come, dobbiamo dirci che il quanto comunque ha il suo peso. Se è vero che spendere tanto ma male non è efficiente se si vuole la crescita, lo stesso (o poco più) vale per lo spendere poco ma bene.

Il PIL italiano, che non aveva ancora recuperato i livelli pre-crisi 2008, nel 2020 diminuito ancora, di circa il 10%. Sono dati spaventosi, che si cerca di aggiustare con uno strumento che, al di là degli aspetti qualitativi, in termini quantitativi non attecchirà più di tanto. Va aggiunto che questi soldi verranno utilizzati in parte per finanziare progetti vecchi, già esistenti, e non arriveranno in blocco, ma saranno spalmati sui 6 anni di attività del Recovery, due aspetti che ne diminuiscono ancora di più l’incisività.

L’Italia è realmente libera di crescere?

L’ultimo grande problema è il regolamento alla base dello strumento: al suo interno, all’articolo 9, rientra in gioco il Patto di stabilità e crescita (PdSeC), ossia quell’insieme di regole che negli ultimi anni sono state accusate di essere causa della bassa crescita, inserite nel calderone del concetto di austerità, e che erano uscite di scena con l’inizio della pandemia.

D’altronde, la semplice sospensione delle regole di per sé lasciava intendere che un giorno sarebbero state riattivate. Se, per esempio, questi soldi entrassero nel computo del deficit e ritornassimo alla stagione della riduzione dei disavanzi, non solo i problemi si manifesterebbero di nuovo, ma lo farebbero in una forma aggravata.

Infine, oltre alle famigerate regole sulla finanza pubblica, l’ultimo grande nodo è il ruolo di sceriffo della Commissione europea. Questo è messo nero su bianco, ad esempio, con il regolamento 1176/2011, parte del «Six pack». La Commissione, con i suoi rapporti e raccomandazioni, da tempo dice agli Stati membri cosa devono fare. Ma quella che è vista come una mera consulenza tecnica dall’alto, è una linea di politica economica, che ha i suoi principi scritti in calce nei due Trattati, Trattato sull’Unione europea (TUE) e Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE).

L’Europa sta cambiando?

Sembra che quasi tutti i partiti siano convinti che sia necessario cambiare l’Europa, che solo una parte apparentemente minoritaria voglia mantenere tutto così com’è. Alcuni parlano di Europa già cambiata, di passi storici. La presenza di Draghi e i fondamentali economici italiani migliori di quelli tedeschi fanno ben sperare alcuni.

Tornare a un mondo identico a prima (da un punto di vista delle politiche economiche) risulta difficile. Tuttavia, stride la retorica dell’«Europa cambiata», o dell’«Europa che sta cambiando», con gli atti concreti che sono (Recovery) e non sono (modifica radicale, se non cancellazione del PdSeC) stati fatti. Se questo è il «cambiamento», urge un ripensamento radicale delle istituzioni e degli strumenti di cui ci siamo dotati.

Fonti: Money.it

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