Il paradosso di usare l’imperfetto per essere gentili nel presente
Tra i recenti usi bizzarri dell’italiano c’è quello di impiegare una forma del passato per sembrare più cortesi: «La chiamavo» anziché «la chiamo». Per qualche ragione, sembra più cortese
Pronto…?
– Buongiorno, sono… dell’agenzia…, parlo con…?
– Sono io, mi dica.
– Buongiorno, la chiamavo per…
– Aspetti! Mi chiamava, ha detto: quando?
– Come quando?
– Quando mi chiamava?
– Cioè, adesso…
– Sì, adesso mi sta chiamando, ma prima?
– Non capisco…
– Allora le ripeto la domanda: quando mi ha chiamato, prima?
– Ma io non l’ho chiamata…
– Ma se mi sta parlando…
– Appunto, la chiamavo per…
Questo, suppergiù, potrebbe essere l’incipit di una telefonata, se a chi la riceve pungesse vaghezza di ispirarsi a Achille Campanile. Quante volte gli sarà venuta la tentazione, sentendo trillare nell’orecchio la vocetta garrula. Qualche volta, magari, l’avrà pure fatto. Dall’altra parte, un attimo di sconcerto, poi via come niente fosse: «Dunque, la chiamavo…».
Al posto del verbo chiamare potete pure metterci disturbare: «La disturbavo per…». «Mi disturbava? E quando?». «Adesso. La disturbavo…». «No, lei non mi disturbava affatto. Lei mi sta disturbando».
Ma perché il tempo imperfetto al posto del presente per dire quello che si sta facendo in questo momento? Perché «la chiamavo», «la disturbavo», anziché «la chiamo», «la disturbo»?
Una spiegazione potrebbe essere che l’imperfetto è avvertito come una forma attenuata, più prudente, più rispettosa. “La chiamavo” è meno invasivo, meno perentorio di “la chiamo”. Un po’ come quando si usa il condizionale: “Le chiederei di…”; in realtà lo si sta già ipso facto chiedendo, con la differenza che in questo caso si potrebbe sottintendere una protasi col congiuntivo – per esempio, “se non le spiace…”, “se non temessi di…”. Nel contesto di un periodo ipotetico, sia pure implicito, nell’apodosi il condizionale è legittimo. Non così l’imperfetto al posto del presente, che resta un vero (e invero inaggirabile) assurdo linguistico.
A meno che non si possa spiegare come la gemmazione di un’altra consuetudine del parlato – «pensavo che mi piacerebbe…», «volevo dirti che…», dove l’impiego del tempo imperfetto è a rigore sbagliato, ma in un certo senso giustificato perché prende il posto di un altro tempo verbale, il passato prossimo («ho pensato che…»), se non addirittura di una proposizione più articolata («ho deciso di, mi sono risolto a…»), con una sfumatura continuativa che conferisce a quanto segue una coloritura di più lunga meditazione.
Basteranno queste considerazioni a spiegare lo strano caso dell’imperfetto? Chissà. In ogni caso, confessiamolo, chi è senza imperfetto scagli la prima pietra: provate a farne a meno… L’efficacia comunicativa spesso prescinde dalla grammatica (oltre che dalla logica), forzando il senso delle parole e dei modi di usarle. Il linguaggio ha ragioni che la ragione non conosce.
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