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La mente di Dio

La mente di Dio

Nel 1976 viene pubblicato per la prima volta un saggio, che ottiene un enorme successo commerciale, dello psicanalista tedesco Erich Fromm dal titolo

“Delle Tentazioni” ed il “se'” come segno del male
Del “MOSSAD” La Collera di Dio
La luz que illumina un nuevo cammino

Nel 1976 viene pubblicato per la prima volta un saggio, che ottiene un enorme successo commerciale, dello psicanalista tedesco Erich Fromm dal titolo “Avere o essere?”. La tesi dell’autore è che l’uomo sia chiamato continuamente nel corso della propria vita a scegliere di vivere secondo l’una o l’altra modalità, o la modalità dell’essere o la modalità dell’avere. In particolare, l’autore scrive che nel presente l’uomo abbia in generale scelto la forma dell’avere mediante l’adozione e conseguente uso di un discorso logico che, intendendo la vita e la realtà come possesso, finirebbe tuttavia per ridurre l’uomo stesso a ingranaggio di una macchina o sistema burocratico sovraordinato.

Questa tesi, che non condivido affatto, nasce da un’interpretazione del termine “essere” che non solo non fa riferimento al significato originario maturato nell’ambito del pensiero generalmente comune a tutta l’antichità, e cioè relativo alla “natura della cosa in sè e per sè”, ma tanto più elide l’unità inscindibile, anch’essa così intesa originariamente, tra l’essere della cosa e la potenza della cosa medesima. In proposito, Parmenide sintetizza validamente ed efficacemente l’intero discorso, affermando che l’essere è e non è possibile che non sia, il non essere non è e non è possibile che sia. Come dire che, ma vedremo meglio nel prosieguo, l’essere e il potere sono da sempre una cosa sola.

E invece, nell’ordine della confusione generata dall’uso inappropriato dei termini (si legga in proposito quanto dice Plutarco nell’adversus Colotem circa gli effetti generati dalla teoria delle idee di Platone) nella modernità succede piuttosto che tendiamo a identificare l’“essere” con la “realtà”; tuttavia, entrambi termini di uso generico a cui normalmente diamo quindi un significato bensì approssimativo. Nell’antica lingua dei Veda (termine traducibile con sapere, conoscenza, saggezza), protomadre del sanscrito del greco e del latino, la realtà indica generalmente possesso e in particolare nelle forme ar e ra, con o senza accento, “il senso di ‘raggiungere’ (ndr: derivante dalla vocale r nella sua forma verbale) riguardava anche oggetti concreti e indicava l’acquisizione del possesso dei beni che erano stati ‘raggiunti’ in quanto meritevoli di essere presi o di essere dati” (F. Rendich, L’origine delle lingue indoeuropee).

Nel più antico “mondo” vedico, fin dall’origine di quel tempo, che secondo Rendich risale all’epoca dell’ultima glaciazione (10.000-8.000 e.a.), in principio è Na. Ovvero “la circolazione permanente (aka) delle acque (na)” primordiali, principio e inizio dell’essere e quindi della realtà appartenente e quindi in possesso di un “folto gruppo di uomini e donne provenienti da una regione prossima al Polo Nord” (Ibidem).

In tempi nuovi, questa “sapienza” cominciò a mutare, finché un nuovo sacerdote affermò in fine che “In principio Dio creò il cielo e la terra. La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque” (Genesi). Traduzione questa già precedente a quella attuale della CEI in cui invece è detto che “Nel principio Dio creò i cieli e la terra. La terra era informe e vuota, le tenebre coprivano la faccia dell’abisso e lo Spirito di Dio aleggiava sulla superficie delle acque”.

Il linguaggio teogonico introduce dunque nuovi principi con cui l’uomo, divenuto dio, dapprima architetto e poi fabbro, come il fanciullo di Eraclito costruisce e struttura il mondo nuovo: cieli, terra, tenebre, abisso, spirito e le più antiche acque. Troppi elementi con i quali fare i conti e in definitiva entrarne in possesso. Infatti: “il concetto di elemento (in greco, στοιχεῖον, stoicheion; al plurale, στοιχεία, stoicheia) indica, a partire dalla filosofia greca antica, un componente primo, minimo, cioè non ulteriormente riducibile o analizzabile, di un insieme composto” (Wikipedia).

Inoltre, direbbe ancora Bernardo di Clunynomina nuda tenemus; così che ai nomi, come viceversa dicevano i latini, finisce per sfuggire il senso del proprio significato originale, originario, iniziale, in definitiva il senso del proprio destino che solo a noi “umani” appartiene: le grand don de ne rien comprendre à [notresort. Sono queste le parole del poeta Paul Valery, che ci spinge a credere che il tempo dei sacerdoti sia oggi finito per sempre. Ma: mai dire mai.

Così, è bene fare un passo indietro e ritornare al nuovo mondo, secondo la tradizione, inaugurato dai Greci. Un mondo che – come sintetizza accuratamente Giorgio de Santillana – nasce all’incirca 2.500 anni fa. Siamo alle origini del pensiero scientifico (greco, ma solo per convenzione in base alla categorizzazione storica erronea che procede per civiltà di sapienza o conoscenza; e quindi in realtà già precedente al popolo originario dei Greci) (Giorgio de Santillana, Le origini del pensiero scientifico). In estrema sintesi, gli elementi (archè) sono ricondotti a quattro: acqua, aria, terra e fuoco e l’“essere”, ovvero la realtà, separata in due – i Greci direbbero “gettata” – tra tempo e spazio. A tale proposito, de Santillana afferma che sia stato Parmenide a scoprire o inventare lo spazio. In che senso, direte voi? Ecco allora, di seguito, la spiegazione.

“La nostra scienza è stata fondata sull’ubicazione univoca e sulla concretezza fuori posto (Whitehead). La fisica moderna ha trasformato questi termini in quesiti (ndr.: siamo cioè, con la fisica quantistica, all’inizio della costruzione di un possibile nuovo mondo). Per Newton la cosa aveva la forza dell’evidenza: Nessuna persona dotata di capacità di comprensione razionale crederà che una cosa agisca là dove non è. Fu Newton stesso a porre il primo quesito formulando la teoria della gravitazione universale: matematicamente inoppugnabile, fisicamente inspiegabile. Egli dovette limitarsi ad accettarla: Io non la capisco e non intendo inventare ipotesi. La risposta dovette attendere Einstein; essa consisté in una pura razionalizzazione matematica che fece piazza pulita e dell’ubicazione univoca e della concretezza” (G. de Santillana, Il mulino di Amleto).

Non vorremmo che il lettore si fosse smarrito. Capita a tutti, a me per primo. E allora, ricapitoliamo in qualche modo il discorso. E lo facciamo servendoci della scoperta o invenzione di Parmenide concernente lo spazio. Prima del 500 e.a., dice de Santillana, il senso dell’essere, e quindi della realtà, era basato unicamente sul tempo – concetto anch’esso – che Platone chiamava Il Medesimo ma anche immagine mobile dell’eternità, essendo costretto in qualche modo a calare il concetto del tempo eterno di Aion nella figura o immagine dello spazio governato da Xronos.

Non ci crederete, ma oggi, quella che era una questione di mele – la melagrana di Persefone o la mela di Eva e tante altre mele ancora – è divenuta piuttosto, a parte la mela di Jobs, una questione di gatti. E non che con i gatti, anche a partire dall’antico Egitto, non avessimo avuto a che farne. Farne e non fare, perché voglio ricordare che è sempre una questione concernente un nostro possesso. Dunque, due sono i gatti, guest star, non a caso stelle ospiti secondo l’antica teoria della Precessione (cfr. G. de Santillana e H. von Dechend, Il mulino di Amleto), di questa nuova storia: il gatto di Hubel e il gatto di Schrodinger.

Veniamo al primo, meno intrigante ma senz’altro non meno interessante del secondo. Siamo animali soprattutto visivi – e qui è inutile rivangare le storie dell’occhio di Ra e dei tanti occhi appartenuti ai diversi Osservatori, celesti e non, come si dice di Gilgamesh, il cui nome sta per “colui che vide tutto” -; e ciò è dimostrato dall’esperimento durato lunghi anni che il neurofisiologo Hubel condusse con i gatti. A riprova, in definitiva, che noi umani, come i gatti, percepiamo innanzitutto il bordo e quindi la linea delle “tessere del mosaico da ricostruire” (S. Ferrara, La grande invenzione. Storia del mondo in nove scritture misteriose). Ciò significa che: “I segmenti, i profili dell’ambiente che ci circonda sono il primo passo per recepire e capire il mondo intorno a noi. Il cervello ci dà i pixel delle immagini, le tessere del mosaico da ricostruire. Non proietta, come uno schermo cinematografico, tutto quello che accade davanti ai nostri occhi. E i pixel più elementari, le prime tessere del mondo, sono i contorni. Non quel che sta dentro” (Ibidem).

Se così, aveva allora ragione Platone a chiamare lo spazio l’“Indisciplinato” e l’“Irregolare”. Ma, se così, aveva anche ragione Parmenide nell’affermare che gli uomini “posero duplice forma a dar nome alle loro impressioni: d’una non c’era bisogno, in questo si sono ingannati, l’una dall’altra figura distinsero e posero segni opposti fra loro, di qua il fuoco etereo vampante, utile, assai rarefatto, leggero, in sé del tutto omogeneo, altro rispetto all’altro; anch’esso però in se stesso notte cieca al contrario, forma densa e pesante” (Frammento 9, vv. 58-64; traduzione di Guido Cerri).

Notte cieca al contrario, forma densa e pesante. Trattasi di un distico, rispetto al quale possiamo oggi dire che la prima parte trova sempre sostegno nella teoria del detto citato di Valery: l’essere è una realtà dominata da un de-stino, lo stare dell’essere e l’essere dello stare medesimo dice Emanuele Severino, che indica possesso, incerto o divino o metamatematico. Così che, in relazione al mondo di Parmenide, scrive de Santillana: “Suggerisco pertanto di trattare ovunque la parola ‘Essere? Come termine indefinito, sostituendola in tutto il testo con x. E’ certo un buon metodo postulare la nostra ignoranza di una parola folgorante, familiare e tuttavia non compresa, trattandola formalmente come incognita e cercando di definirla dal contesto (ndr: sembra sentire un eco heideggeriana). Ora, se teniamo la mente ‘monda di pregiudizi’, come suggeriva Bacone, e cerchiamo di definire x unicamente dal contesto, troveremo che esiste un altro concetto, e solo quello, che può sostituirsi a x senza generare assurdità o contraddizioni, e questo concetto è il puro spazio geometrico stesso, per il quale i Greci non possedevano ancora un termine tecnico (è noto che i primi Elementi erano essenzialmente bidimensionali)” (G. de Santillana, Fato antico e fato moderno).

Non così, invece, per la seconda parte del distico, ovvero l’essere come forma densa e pesante. E qui entra in gioco il gatto di Schrodinger. Se applicata a un sistema fisico macroscopico, la teoria del gatto di Schrodinger conduce a un ennesimo paradosso; che tuttavia serve a spiegare “come” funziona la fisica e quindi la realtà quantistica. Come funziona e non “perché” funziona, dato che il fanciullo che ancora siamo non è capace di trovare una risposta e quindi è costretto saggiamente a praticare la teoria, la più antica della tradizione accademica, dell’epochè o sospensione del giudizio. E dunque il gatto nella scatola vive o muore contemporaneamente, almeno fino a quando non si compie un’osservazione.

Quanto la concezione della realtà dipenda essenzialmente dalla mente e dai sensi dell’osservatore, aldilà del percorso che sarà tracciato da Achille e dalla tartaruga, è “cosa che” Zenone aveva già validamente ed efficacemente descritta attraverso il linguaggio del Mito, che sempre ritorna. Parmenide com-prende secondo entrambi gli ordini, della mente e dei sensi. Come attesta e ci conferma Plutarco nel suo adversus Colotem.

Ma, nell’attualità, la mela di Jobs e i gatti di internet prefigurano l’ipotesi di un’altra e nuova realtà. Cosa avrebbe di nuovo? In qualche modo: non si compone più di materia, ma di energia, e non è più condizionata dallo spaziotempo einsteineano. Attualmente, ricorda un passo famosissimo della Tempesta di Shakespeare: Siamo fatti della stessa materia di cui sono fatti i sogni. Se è vero, ma non serve affatto che lo sia – avrete ormai capito che ciò che importa è che sia credibile, alla maniera in cui dice Giorgio de Santillana “credevano” gli Antichi (G. de Santillana e Hertha von Dechend, Ibidem) -, quello che si annuncia è un nuovo mondo in cui vivere e quindi assumerne assiomaticamente e prenderne realmente il possesso.

“La fisica moderna ci insegna qualcosa di diverso, e assai controintuitivo. Addentrandoci sempre più in profondità – dai corpi agli atomi, dagli atomi alle particelle subatomiche, dalle particelle subatomiche ai campi e alle forze quantistiche -, abbiamo perso completamente di vista la materia, la sua tangibilità. Nel momento in cui la massa è diventata una qualità secondaria, il risultato di interazioni tra campi quantistici intangibili, la materia ha perduto il suo primato. Ciò che riconosciamo come massa è un comportamento di questi campi, non una loro proprietà intrinseca. Anche se il nostro mondo fisico è pieno di oggetti duri e pesanti, è in realtà l’energia dei campi quantistici a regnare sovrana. La massa è semplicemente una manifestazione fisica di quell’energia, non è il contrario” (Jim Baggott, Massa).

E dunque possiamo non avere più a che fare con gli Atomi “densi e pesanti” di Democrito e Parmenide. Possiamo, sembra, avere di nuovo a che fare con le Acque vediche e l’Oceano di Omero. E ancora, con quel “campo del vasaio” di cui diceva il profeta Zaccaria, e che per errore Matteo riferì a Geremia, quello stesso campo che i sacerdoti del tempio acquistarono per trenta denari d’argento, gli stessi pagati prima a Giuda e ricevuti poi da Giuda stesso, gli stessi che avevano rappresentato il prezzo del venduto. Il prezzo necessario da pagare per il destino di ogni “umano”, privo di qualunque certezza: le grand don de ne rien comprendre à [notresort. Forse che al “postumano” nel Metaverse tocchi in sorte un mondo diverso? E quanto o quantum diverso? Senz’altro diverso e ciò che importa è credere che sia così.

Fonte: Nuovogiornalenazionale.it

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