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Cos’ è l’acqua virtuale e perché dobbiamo misurarla?

Ogni prodotto e alimento ha dietro un costo idrico, che non viene contato. Allargando lo sguardo ci si accorge dell’interdipendenza idrica che si cela dentro al commercio globale, e che alcuni paesi molto ricchi sono in realtà molto poveri

Cos’ è l’acqua virtuale e perché dobbiamo misurarla?

Affiancare la metrica delle emissioni al valore di un prodotto è un passo cruciale nel processo di transizione ecologica. Proposte come la tassa di ag

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Affiancare la metrica delle emissioni al valore di un prodotto è un passo cruciale nel processo di transizione ecologica. Proposte come la tassa di aggiustamento del carbonio al confine si basano sulla consapevolezza che dietro a ogni tipo di merce c’è un processo di produzione che rilascia gas climalteranti in atmosfera, di cui occorre tener conto. Nell’ottica di creare un’economia globale sostenibile lo stesso identico discorso può e dovrebbe essere applicato all’acqua.

Si parte dal presupposto che si tratta di una risorsa cruciale per l’esistenza dell’essere umano, prima ancora che per lo sviluppo economico. L’accesso ad acqua potabile e servizi igienici è riconosciuto dalle Nazioni Unite come prerequisito per la realizzazione di tutti i diritti umani. Oggi circa 2,2 miliardi di persone non godono pienamente di questo diritto, e in esse si contano 450 milioni di bambini. Anche se l’acqua può arrivare per vie traverse.
Occorre ricordarsi che gli effetti del riscaldamento globale aggraveranno la stabilità idrica delle regioni più esposte, con conseguenze sulla produzione alimentare locale. Si deve anche tener conto che l’aumento della popolazione globale e del suo reddito medio comporterà un’impennata nella domanda mondiale di cibo del 50% entro il 2050. Tuttavia non si ragiona ancora in termini di acqua “nascosta” nelle merci che attraversano i confini, né dell’impatto che questa ha sulle popolazioni più a rischio.

Cos’è l’acqua virtuale

I Paesi del Medio Oriente tendono ad essere poveri d’acqua. Lì i cittadini hanno bisogno di molta più acqua di quella che i loro Paesi sono in grado di produrre, non solo per dissetarsi e per i servizi igienici ma anche per coltivare e costruire i beni di cui hanno bisogno. Così, quando importano quei beni, stanno importando per procura l’acqua di cui avrebbero avuto bisogno per produrli loro stessi.

Questo è il concetto di “acqua virtuale”, una metrica sempre più diffusa nella comunità scientifica che tiene conto di tutta l’acqua impiegata per creare un prodotto – oggetti, energia, alimenti – lungo l’intera catena di produzione. E serve considerarla per mappare e affrontare il versante idrico della questione sostenibilità.

Un po’ di dati. Il 90% dell’acqua virtuale passa dal commercio di cibo. Stando al Water Footprint Network (una piattaforma di collaborazione che studia come prevenire le crisi idriche e promuove l’efficientamento dell’impiego di acqua) l’impronta idrica di una tazza di caffè è circa 130 litri, contando l’acqua impiegata per la crescita, la pulizia, la torrefazione del caffè e altro. Un chilo di cereali si fa con 1.600 litri d’acqua, con picchi per alcuni alimenti (il riso richiede più del doppio). Per il bestiame occorre considerare l’acqua che va nella crescita del mangime, come la soia, a sua volta una coltivazione ad alta intensità idrica. Un chilo di manzo, la carne più “pesante” in termini idrici, richiede oltre 15.000 litri. Niente di tutto ciò è contrassegnato sul pacco del supermercato.

Le ripercussioni

Beninteso, l’acqua è la risorsa circolare per eccellenza, ma considerando l’acqua virtuale “contenuta” in un prodotto si può iniziare a mapparne gli spostamenti attraverso i confini. Si stima che nel 2021 siano stati scambiati almeno 1,4 mila miliardi di litri d’acqua virtuale sul mercato globale. Questo è causa di preoccupazione per le regioni sotto stress idrico, come l’India o l’Arizona, dove si produce il mangime per le bestie che poi vengono vendute all’Arabia Saudita. Cosa che può intaccare la disponibilità finale d’acqua in momenti di crisi.

La questione è di natura prettamente strategica da ambo i lati, fermo restando che i fattori come la crescita della popolazione e il cambiamento climatico – dunque gli eventi estremi come alluvioni e siccità -, nonché l’uso eccessivo di acqua, accrescono l’incertezza in maniera globale. Da una parte ci sono i Paesi di origine e la loro esposizione agli eventi avversi che aumenta con l’esportazione di acqua virtuale, “dirottata” altrove. Dall’altra c’è la dipendenza dei Paesi poveri d’acqua, come alcuni Paesi del Golfo, che devono importare oltre l’85% del loro cibo.

Questa interconnessione è una lama a doppio taglio. Le nazioni povere d’acqua si basano sulle importazioni di cibo e l’acqua virtuale insita in esso, ma la loro sicurezza alimentare è a rischio se viene meno la catena di produzione o la loro disponibilità economica. Viceversa, i Paesi esportatori d’acqua virtuale rispondono alla domanda; nel caso di Brasile e Indonesia, per esempio, vaste porzioni di foresta sono state disboscate per fare spazio alle piantagioni per l’esportazione, con ripercussioni generalizzate sul clima del pianeta.

Le soluzioni

Sono allo studio tipi di coltivazioni saline e potenti impianti di desalinizzazione per sfruttare l’acqua marina e coprire il fabbisogno d’acqua, virtuale e non, della popolazione presente e futura. Ma come per la cattura e lo stoccaggio del carbonio, non esiste ancora una tecnologia affidabile e utilizzabile su larga scala. Per gli esperti la prima risorsa da mettere in campo non può che essere più efficienza, sia a monte che a valle della catena.

Questa è una materia essenziale per la transizione verso un’economia globale più equa e sostenibile. Se si considera la metrica dell’acqua virtuale diventa evidente come l’utilizzo di acqua in un luogo del pianeta condizioni direttamente la disponibilità idrica (indiretta) in un altro; quelle che in un Paese sono perdite accettabili possono avere effetti drammatici, mediante le catene di produzione e i prezzi degli alimenti, sulle fasce più povere della popolazione.

Oggi diminuire la carne è uno dei sistemi più efficaci in assoluto – una dieta a base vegetale ha un’impronta idrica dimezzata rispetto a una dieta carnivora – ma nei Paesi ricchi d’acqua si tratta anche di ridurre il consumo e tamponare la dispersione. Qui l’Italia ha poco da star serena: come ha rimarcato Ferruccio de Bortoli sul Corriere della Sera, siamo in vetta alle classifiche europee di consumo e dispersione della risorsa, per cui “[buttiamo] via, non del tutto personalmente, 156 litri al giorno”.

Fonte: Formiche.net

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