HomeLa Riflessione di Giancarlo Elia Valori

Dopo anni di iperattivismo il leader turco è completamente isolato.

Il 14 giugno a Bruxelles si è tenuto un vertice Nato con l'obiettivo di discutere di importanti temi internazionali

Dopo anni di iperattivismo il leader turco è completamente isolato.

  Il 14 giugno si è tenuto il vertice Nato a Bruxelles e sono stati discussi temi di importanza strategica, come i rapporti dei paesi dell’All

Le pericolanti ambizioni Turche
Vertice Nato a Bruxelles
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Il 14 giugno si è tenuto il vertice Nato a Bruxelles e sono stati discussi temi di importanza strategica, come i rapporti dei paesi dell’Alleanza con la Cina e l’atteggiamento da tenere nei confronti della Russia di Putin. Le posizioni degli alleati  non sono apparse univoche e le diplomazie hanno dovuto faticare a trovare i giusti accenti con i quali costruire il comunicato finale.

Le dichiarazioni di Erdogan

Il presidente del Consiglio Draghi ha definito il presidente turco  un “dittatore e un autocrate”, il quale ha anche dovuto subire le dure reprimende del Dipartimento di Stato americano che, non ha esitato a condannare le sue dichiarazioni  rese pubbliche nei primi giorni di guerra, quando per sottolineare il suo pensiero nei confronti della leadership israeliana ha definito Benjamin Netaniahu “il primo ministro ebreo”.

L’uso sprezzante del termine “ebreo” invece di “israeliano” ha fatto scattare la reazione dell’Amministrazione Biden. Il portavoce del Dipartimento di Stato Ned Price è stato incaricato di dichiarare “la forte e inequivocabile condanna per i commenti antisemiti del presidente turco”, e lo ha invitato a smetterla di fare “proclami incendiari… anche perché l’antisemitismo non deve avere spazi di agibilità”.

 La Turchia di Erdogan

La Turchia di Erdogan si trova oggi ai margini della scacchiera politica e durante il vertice Nato del 14 giugno, risulta essere fisicamente isolato dagli altri capi di Stato e di governo. La Turchia è stata condannata, dopo un decennio di spregiudicate mosse politiche e militari avventate e controproducenti.

Già nella primavera del 2010, per dimostrare sostegno alla causa palestinese, Erdogan autorizzò la costituzione della “Freedom Flotilla” un convoglio navale in grado di sfidare il blocco navale israeliano sulle coste della Striscia di Gaza.

Il 31 maggio di quell’anno, commandos israeliani intercettarono la Mavi Marmara, una nave che, oltre ad aiuti umanitari, trasportava militanti di Hamas che tentavano di rientrare clandestinamente nella Striscia.

Ankara ruppe le relazioni diplomatiche con Gerusalemme, che risalivano al 1949 quando la Turchia fu il primo, e per molti anni l’unico, Paese musulmano a riconoscere lo Stato di Israele.

Il presidente turco è intervenuto nella guerra civile siriana fornendo aiuti militari e sostegno logistico non soltanto alle milizie della “Syria Liberation Army” ma anche alle formazioni dei salafiti di “Jabhat Al Nusra” e, addirittura, dell’ISIS.

Si sa come è andata: dopo un decennio di guerra civile la Siria è in macerie ma Bashar al Assad è ancora al potere, i ribelli sono ormai rinchiusi in piccole sacche di resistenza e la Russia che è intervenuta a fianco di Damasco rovesciando le sorti del conflitto è saldamente insediata nel Paese mentre Ankara non solo è esclusa dal promettente business della ricostruzione della Siria, ma si trova a gestire un’imponente emergenza-profughi.

L’attivismo di Erdogan, lo ha portato a intervenire nella crisi del Nagorno Karabach a sostegno dei turcomanni azeri, contro gli armeni cristiani, con il risultato che dopo l’ultima crisi dell’autunno del 2020, la Turchia si è dovuta fare da parte per lasciare alla Russia il ruolo di forza di interposizione e di pace.

Anche in Libia, dopo aver inviato armi e mercenari al sostegno del Governo di Accordo Nazionale di Al Serraji, dopo le dimissioni di quest’ultimo nello scorso gennaio, il ruolo turco si è fatto meno influente rispetto alle aspirazioni del leader di Ankara.

Nel 2017, Erdogan nel vano tentativo di mandare un segnale agli alleati Nato e Usa, ha acquistato dalla Russia sistemi missilistici terra aria S-400, per un valore di 2,5 milioni di dollari.

La mossa non piacque all’allora presidente americano Donald Trump che immediatamente impose sanzioni economiche e militari alla Turchia.

E’ di questi giorni la notizia che, nel tentativo di avviare un riavvicinamento alla nuova amministrazione Biden, Erdogan abbia deciso di mandare a casa i tecnici russi che nella base di Incirlick, che è anche una base Nato, curavano la manutenzione degli S-400, con il risultato di far infuriare Vladimir Putin al quale ovviamente non sorride l’idea di vedere materiale altamente sofisticato nelle mani degli americani.

Il risultato finale di tutte queste mosse scomposte è che le sanzioni Usa restano in vigore mentre i russi non possono che pentirsi per essersi fidati di un leader inaffidabile.

Anche sul fronte interno, nonostante la repressione seguita al fallito golpe da operetta del 2016, le cose non vanno bene.

La profonda crisi economica, risultante da spese militari eccessive, scarsa capacità amministrativa e corruzione dilagante, nonché dai contraccolpi della pandemia da Covid 19, rende ancora più difficile la situazione del presidente turco e del suo partito, L’AKP (Partito del Progresso e dello Sviluppo), che insieme governano ininterrottamente dal 2002.

Le recenti elezioni amministrative, che hanno visto la sconfitta dell’AKP e i sondaggi elettorali segnalano che, nonostante l’alleanza tattica tra il partito di Erdogan e l’ultra nazionalista Movimento Nazionale, alle elezioni politiche e presidenziali del 2023 un successo del presidente e del suo partito appare tutt’altro che sicuro.

Nello scorso mese di aprile dopo essere stato accusato di corruzione e di associazione a delinquere si è autoesiliato prima in Montenegro e poi negli Emirati Arabi Uniti da dove conduce un’incessante campagna contro Erdogan e il suo partito accusati di corruzione e di altri resati.

Sotto la supervisione interessata di Mohamed Dalhan, ex capo dei servizi segreti palestinesi nella striscia di Gaza esule negli Emirati dopo la rottura con Hamas, Peker ogni giorno inonda i social media di accuse contro i “cerchio magico” del presidente turco, a cominciare dal ministro degli Interni, Suleyman Soylu e del suo alleato Mehemet Agar, già Capo della Polizia, che a parere di Pekere sono responsabili non solo di corruzione, ma anche di estorsione, traffico di droga e omicidio.

Accuse clamorose che dominano, nonostante la censura imposta dal governo, il dibattito politico in Turchia.

Mohammed Dalhan, l’agente segreto palestinese, aiuta Peker sia per spirito di vendetta nei confronti di Hamas e, di riflesso del suo sostenitore turco, sia perché il governo di Abu Dhabi, per cui oggi lavora, non ha visto con favore i tentativi di sabotaggio da parte turca degli “Accordi di Abramo” tra Israele e paesi arabi moderati e il sostegno esplicito offerto da Erdogan ad Hamas durante la recente “guerra degli undici giorni”. Quest’ultima si è conclusa, peraltro, grazie alla mediazione egiziana, un successo diplomatico del fronte arabo modera che spinge sempre di più ai margini la Turchia e il suo leader costretti ormai ad avvicinarsi, loro sunniti osservanti, agli eretici sciiti dell’Iran, gli unici ormai che sembrano dar credito a Erdogan, ridotto come il cattivo studente in un angolo della classe, un angolo dal quale difficilmente riuscirà a uscire senza evidenti cambiamenti di rotta verso un approccio più moderato in politica interna e un ritorno verso occidente in politica estera.

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