termine è importante e per nulla banale. Il caffè, infatti, per i lavoratori italiani non rappresenta soltanto un momento di svago o di dipendenza da una bevanda, bensì è l’escamotage linguistico per entrare in una sfera spazio-temporale dalle molteplici funzioni: distacco dal ruolo lavorativo, respiro, riflessione, ragionamento, approfondimento, attività fisica, forma di meditazione perfino, etc.

Nella sentenza della suprema Corte si parla di «scelta arbitraria del lavoratore, il quale, mosso da impulsi, e per soddisfare esigenze, personali». Esigenze personali nate da impulsi, dunque. Eppure, dalla mia prospettiva di sociologo (e non di giurista, sia chiaro) si tratta anche di un’esigenza sociale, che permette alla lavoratrice di rallentare i ritmi, di riflettere, di organizzare e pianificare compiti e attività, ma anche di sfogarsi, o confidarsi, o ancora consultarsi con altri colleghi. Altrimenti, nella maggior parte delle nostre attività lavorative di tutti i giorni, se venisse meno la pausa caffè e/o la presenza del Caffè (inteso come luogo pubblico) il rischio sarebbe di precipitare in un lavoro alienato e alienante privo di spazi di socialità, socializzazione, incontro, conversazione, confronto e condivisione, non solo di compiti lavorativi, ma anche di esperienze e sentimenti.

In un altro passaggio della sentenza è scritto che la pausa caffè si configurerebbe come «un rischio assunto volontariamente dalla lavoratrice non potendo ravvisarsi nell’esigenza, pur apprezzabile, di prendere un caffè i caratteri del necessario bisogno fisiologico che avrebbero consentito di mantenere la stretta connessione con l’attività lavorativa».

Dunque, mi chiedo, il lavoratore dovrebbe essere bloccato alla propria sedia o sul proprio spazio lavorativo, se non per espletare bisogni fisiologici? Appena lo viola per la pausa caffè, per quanto “apprezzabile”, deve assumersi il rischio dei pericoli che ne potrebbero conseguire? Devo ammettere che sono confuso.

Da sociologo e da studioso della sfera pubblica di habermasiana memoria non posso invece non notare proprio tale carattere di necessità della pausa caffè connesso all’attività lavorativa, poiché spesso è proprio grazie a tale pausa che è possibile “fermarsi e pensare”, fare il punto sulle azioni compiute e sulle mansioni da svolgere, riflettendo sulle strategie da attuare.

Inoltre, mi sembra opportuno ricordare che la stessa “sfera pubblica” prende forma all’interno delle prime sale da Caffè del Seicento e del Settecento in Inghilterra, in Germania, in Francia e in Italia, con l’emergere della nuova classe borghese. Quella stessa sfera pubblica che oggi ci permette di conversare con gli altri di questioni di rilevanza collettiva, anche durante le attività lavorative, utilizzando esclusivamente la forza dell’argomentazione, in forme democratiche ed egualitarie.

Secondo la mia opinione, la pausa caffè fa parte dell’attività lavorativa – senza abusarne, chiaramente – configurandosi come un diritto per il lavoratore, e non certo un rischio. Quel diritto di non farsi avvolgere da ritmi meccanici e frenetici che rischiano di trasformare il soggetto in automa privandolo della propria capacità di approfondire l’esistenza, di porsi domande sulle proprie azioni, di interrogare l’esperienza.

Fonte: Huffpost