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Lavoro: le imprese non trovano manodopera. Non è solo colpa dei giovani

Stipendi inadeguati, lavoro nero, scelte formative sbagliate. Perché c'è un gap tra domanda e offerta di lavoro

Lavoro: le imprese non trovano manodopera. Non è solo colpa dei giovani

“Il lento recupero del mercato del lavoro si è accompagnato a un ulteriore aumento della percentuale di imprese del settore manifatturiero che han

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“Il lento recupero del mercato del lavoro si è accompagnato a un ulteriore aumento della percentuale di imprese del settore manifatturiero che hanno dichiarato scarsità di manodopera. Questo disallineamento tra domanda e offerta di lavoro potrebbe implicare un mismatch tra le competenze richieste dalle imprese e quelle disponibili sul mercato”. L’ultima Nota sull’andamento dell’economia italiana redatta dall’Istat evidenzia ancora una volta un tema già a lungo dibattuto. Alcune imprese lamentano di cercare dipendenti, senza fortuna: le candidature non sono sufficienti a coprire i posti vacanti. Come si spiegano questi dati in un paese che conta attualmente oltre 300mila disoccupati in più rispetto al periodo prepandemico, per un totale di quasi 3 milioni? Ne abbiamo discusso con Alberto Pastore, professore di Economia e gestione delle imprese e e Delegato della Rettrice al Placement all’Università La Sapienza di Roma.

Una distinzione risulta essenziale: quella tra lavori qualificati – ossia per i quali sono richiesti laureati – e lavori meno qualificati. Per quanto riguarda questi ultimi, il professor Pastore attribuisce la responsabilità ad un insieme di fattori: “Il problema dipende dal combinato disposto tra livello delle retribuzioni, sostegno alla disoccupazione (reddito di cittadinanza e indennità di disoccupazione) e lavoro nero. Per questo motivo i giovani possono non essere incentivati ad intraprendere un’attività lavorativa regolare ed essere inclini ad approfittare dei sussidi e di opportunità di lavoro temporaneo e/o in nero. Naturalmente, accanto a ciò, vi è la carenza di alcuni profili professionali, dovuta anche alle mancanze del sistema formativo degli istituti professionali. Infine, c’è un sistema di incontro tra domanda e offerta che è del tutto inadeguato. Basti pensare ai risultati di iniziative come Anpal”.

Sui lavori qualificati, Pastore cita dati Almalaurea. Nel 2020 il tasso di occupazione della fascia d’età 20-64 era pari al 78,0% tra i laureati, rispetto al 65,1% di chi è in possesso di un diploma, evidenziando l’importanza della formazione e del livello di studio ai fini dell’occupabilità. Al tempo stesso, livelli elevati di formazione sono valorizzati solo in parte in termini di livelli retributivi: secondo l’Ocse, nel 2018 un laureato guadagnava il 37,0% in più rispetto ad un diplomato di scuola secondaria di secondo grado. Va sottolineata poi una forte divergenza tra le diverse aree disciplinari: “C’è moltissima domanda di lavoro per i laureati cosiddetti Stem – Science, Technology, Engineering e Mathematics – ai quali aggiungerei anche Economia. Poca domanda di lavoro per i laureati dell’area umanistica”. Come ovviare questa asimmetria? Le università oggi sono fortemente orientate ad innovare l’offerta didattica, adeguandola alle reali necessità del mondo produttivo. Ma per attuare tali cambiamenti serve del tempo, e comunque ciò non è sufficiente a rimuovere il problema: “La scelta del corso di studi resta in capo agli studenti, che potrebbero avere un’aspirazione diversa e scegliere comunque una disciplina che non trova diretto riscontro con le attuali richieste del mondo del lavoro. Bisognerebbe intervenire nelle scuole e costruire in quella sede una maggiore cultura ed orientamento verso le aree tecnico scientifiche”.

I dati che evidenziano una maggiore fortuna occupazionale per i laureati non sono comunque così significativi da incentivare la scelta di intraprendere impegnativi percorsi formativi. In molti casi gli stipendi non sono adeguati alle competenze richieste: “Il confronto con le retribuzioni all’estero è disarmante, questo spiega la voglia dei nostri ragazzi di cercare altrove sbocchi professionali. Non solo. Molti paesi offrono tante opportunità, il merito e la trasparenza regolano il mercato del lavoro e gli stipendi sono molto più alti. Se io fossi un giovane oggi guarderei con molto favore di trovare la mia occupazione professionale fuori dall’Italia. Come professore universitario nel Nord Europa guadagnerei più del doppio”.

Un’altra pratica italiana risulta mortificante per i giovani in cerca di lavoro: gli stage non retribuiti, che “favoriscono lo sfruttamento, andrebbe eliminati. Oggi una legge fa sì che quelli non curriculari debbano essere per forza retribuiti, ma non vale per quelli svolti durante i corsi di studio. Se un ragazzo durante l’università fa uno stage di sei mesi in azienda, lavorerà sei mesi senza essere pagato, neanche con un rimborso spese. È inaccettabile e scandaloso”. Eppure lo stage resta la via maestra per apprendere delle competenze che l’università spesso non offre: “A scuola e all’università si seguono percorsi formativi verticali, ma per lavorare in modo efficace nelle organizzazioni azienda c’è bisogno anche di altri tipi di competenze, come ad esempio skill comportamentali, capacità di comunicazione e di presentazione, attitudine a lavorare in gruppo, leadership. Queste cose fino ad oggi non venivano insegnate nei corsi di laurea, anche se fortemente richieste nel mondo del lavoro, poiché formano un profilo completo. In tempi più recenti, molte università si stanno attivando per fornire ai propri studenti tutte le competenze necessarie per favorire l’assunzione, comprese quelle relative all’orientamento al mondo del lavoro e allo sviluppo delle competenze trasversali. Sono elementi che dovrebbero favorire l’assunzione”.

Fonte: Huffpost.it

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