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Il New Deal 2.0 delle infrastrutture

Il New Deal 2.0 delle infrastrutture

Nel pieno di una crisi di popolarità, confermata dalla sconfitta in Virginia nell’elezione del nuovo Governatore, il Presidente Joe Biden segna un pun

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Nel pieno di una crisi di popolarità, confermata dalla sconfitta in Virginia nell’elezione del nuovo Governatore, il Presidente Joe Biden segna un punto di vittoria laddove la precedente amministrazione aveva fallito. Il 5 novembre è stato infatti approvato in via definitiva dalla Camera dei Rappresentanti del Congresso l’Infrastructure Investment and Jobs Act per un valore di 1.300 miliardi di dollari. È il risultato di un accordo bipartisan, con l’obiettivo principe di modernizzare la dotazione infrastrutturale del Paese, sempre più carente e necessitante di importanti interventi di manutenzione.

La situazione infrastrutturale

I dati fotografano e cristallizzano una situazione non idilliaca. Secondo il Global Competitiveness Report 2020 del World Economic Forum, gli Stati Uniti registrano un punteggio di 71,2 (su 100) nell’indice che misura la capacità di ammodernare le infrastrutture per accelerare la transizione energetica e migliorare l’accesso all’elettricità e alle infrastrutture digitali. Tale punteggio relega gli Stati Uniti al 31° posto dei Paesi sviluppati o emergenti, dietro anche alla Cina, che segna un valore di 77,5. In particolare, la situazione di deficit si riscontra nella qualità delle infrastrutture stradali (valore di 5,50 su 7) e per le infrastrutture ferroviarie.

In un contesto di crescenti tensioni geopolitiche, in particolare con la Repubblica Popolare Cinese, che aspira a divenire leader globale nell’industria ad alta tecnologia attraverso il programma China Manufacturing 2025, il possesso di infrastrutture efficienti è precondizione per una crescita sostenibile di lungo periodo e per aumentare la competitività del sistema industriale americano. Infrastrutture efficienti significano infatti minori costi di trasporto e maggiore velocità nei collegamenti interni e con il resto del mondo, e una maggiore efficienza nella produzione e distribuzione di energia. Non solo. Il pacchetto va nella direzione degli impegni assunti dagli Stati Uniti attraverso il rinnovato ingresso negli accordi di Parigi  COP21 e sarà fondamentale per raggiungere gli obiettivi di neutralità climatica annunciati dall’amministrazione americana per il 2050.

I contenuti del piano

La parte del leone sarà dedicata al miglioramento della qualità e alla manutenzione della complessa rete stradale federale e ai ponti, a cui saranno destinati 110 miliardi di dollari. 39 miliardi di dollari saranno inoltre garantiti al trasporto pubblico, in particolare all’acquisto e alla riparazione di oltre 24.000 bus e 5.000 carrozze ferroviarie. Sarà finanziata anche la debole rete ferroviaria americana: 66 miliardi di dollari sono veicolati su Amtrack, la società ferroviaria americana, soprattutto per il potenziamento delle linee esistenti e per la creazione di nuove rotte ad alta velocità. Dal punto di vista delle infrastrutture digitali, 65 miliardi saranno destinati a investimenti sulla banda larga che dovrà essere assicurata a ogni cittadino e impresa degli Stati Uniti.

Sul fronte energetico, 65 miliardi di dollari saranno destinati all’ammodernamento della rete elettrica del Paese, in particolare con tecnologie abilitanti per la creazione di reti intelligenti, fondamentali per la produzione di energie rinnovabili. Non solo: 7,5 miliardi saranno garantiti per colonnine della ricarica elettrica lungo i principali assi autostradali degli Stati Uniti e 5 miliardi per bus a zero emissioni, così come 2,5 miliardi per traghetti ecologici. Infine, 48 miliardi saranno allocati per il potenziamento delle infrastrutture idriche e 25 miliardi per l’ammodernamento degli aeroporti. Secondo Brookings Institution , all’interno del piano saranno complessivamente destinati 154 miliardi per finanziare programmi a protezione del clima, a infrastrutture resilienti, come le sopra citate infrastrutture energetiche e reti intelligenti. Sullo sfondo, rimane l’altra parte dell’Agenda Build Back Better di Biden, cioè il piano da 1.750 miliardi di dollari dedicato a priorità sociali e climatiche, come ingenti sussidi alle energie rinnovabili.

Il settore marittimo e portuale

L’amministrazione Biden, inoltre, è intenzionata a varare nuovi investimenti in un settore ritenuto cruciale per il corretto funzionamento delle supply chains e per la proiezione commerciale degli Stati Uniti: i trasporti marittimi e i porti. In aggiunta ai 17 miliardi di dollari previsti dall’Infrastructure Investment and Jobs Actnel corso dei prossimi due mesi sarà presentato con l’US Army Corps of Engineers un piano dettagliato da 4 miliardi per lavori di potenziamento delle infrastrutture portuali costiere e delle reti fluviali interne. Inoltre, il piano individuerà ulteriori 3,4 miliardi in miglioramenti delle infrastrutture di confine, in particolare le dogane, per rendere il commercio internazionale più fluido lungo i confini settentrionali e meridionali.

Il piano Biden per il commercio marittimo prevede, in particolareazioni per migliorare la condivisione dei dati e informazioni tra le compagnie di shipping, gli operatori di terminal, gli operatori ferroviari, il cargo e i sistemi di stoccaggio delle merci. Infine, lo U.S. Digital Service sta lavorando con la Federal Maritime Commission e l’ufficio del programma congiunto presso il Dipartimento dei Trasporti per definire un sistema di scambio permanente di dati che aiuterà a spostare le merci in modo più efficiente. Tale piano si rende ancora più necessario in un contesto di rinnovato interesse americano per l’area dell’Indo-Pacifico, come testimoniato dal Piano infrastrutturale Blue Dot Network lanciato nel novembre 2019 insieme a Giappone e Australia.

Tuttavia, questo pivot verso il Pacifico non è stato supportato da un adeguato attivismo navale americano, nonostante la grande espansione della flotta commerciale e militare cinese. Anzi. Il numero di mercantili americani non è mai stato così basso, divenendo – secondo esponenti del Governo americano – una pericolosa minaccia alla sicurezza nazionale. I dati sono estremamente allarmanti: la marina mercantile americana rappresenta solo lo 0,4% dei mercantili mondiali, pari a 180 navi su una flotta di oltre 43.000. Gli Stati Uniti hanno perso larga parte della loro capacità industriale di costruire, manutenere e riparare i grandi mercantili oceanici. Pechino, d’altro canto, costruisce il 40% dei mercantili oceanici su scala globali e e 4.569 di questi battono bandiera cinese. Non è finita: 30 dei 50 maggiori porti container al mondo sono di proprietà cinese. Si tratta di uno squilibrio in termini strategici e di capacità infrastrutturale difficilmente sostenibile nel lungo periodo, in particolare nel quadro di una rinnovata ambizione statunitense nell’Indo-Pacifico e, quindi, anche in termini di credibilità nei confronti degli alleati.

Gli effetti del piano

Le più recenti stime dell’American Society of Civil Engineers (ASCE) dimostrano che per anni le infrastrutture americane hanno sofferto di profondi deficit in termini di investimenti. Il gap complessivo si è perciò progressivamente ampliato: saranno infatti necessari circa 2.600 miliardi di dollari nel corso dei prossimi dieci anni per coprirlo. Attraverso il piano dell’amministrazione democratica, le spese federali in infrastrutture saliranno dallo 0,8 all’1,3% del Pil tra il 2022 e il 2026. Si stima, inoltre, che per un incremento ulteriore di 100 miliardi di dollari all’anno di spese destinate alle infrastrutture aumenterebbe immediatamente anche la crescita americana dello 0,10%. Nel lungo termine, invece, un maggiore stock di capitale fisico di qualità potrebbe rafforzare la produttività e aumentare il Pil potenziale dello 0,20% all’anno, il che significherebbe una maggiore ricchezza pari a 1000 miliardi di dollari da qui al 2050.

La sfida è di aumentare ulteriormente i capitali mobilizzati attraverso un sempre maggiore coinvolgimento del settore privato, in linea anche con le indicazioni che giungono dal Comunicato finale del G20 a Presidenza italiana. Il Piano sembra andare proprio in questa direzione, in quanto incentiva gli attori privati a sostenere lo sforzo finanziario del settore pubblico. Ciascuna città o Stato federato che richieda un contributo federale maggiore di 750 milioni di dollari dovrà anche valutare la possibilità di una partnership con finanziatori privati per garantire una maggiore qualità e solidità finanziaria dell’investimento. Ciò si rileva con ancor maggior urgenza in un contesto di forte pressione inflazionistica e sul bilancio pubblico del Paese che, secondo l’ultimo World Economic Outlook del FMI, registrerà nel 2021 un rapporto deficit/Pil pari al 10,8% e un rapporto debito/Pil del 133,3%.

Il piano infrastrutturale americano rappresenta una condizione imprescindibile perendere credibili gli impegni assunti sul piano internazionale dall’amministrazione americana. Dal piano Build Back Better for the World (B3W), adottato su forte spinta USA durante il Summit del G7 in Cornovaglia a giugno 2021 per contrastare la Belt & Road Initiative cinese, a iniziative regionali come il nuovo EU Global Gateway, il contributo americano dovrà essere reale anche nei confronti e a supporto dei principali alleati. Non potrà essere unicamente un apporto finanziario, ma dovrà realizzarsi anche attraverso un’adeguata assistenza tecnica e capacità industriale e tecnologica da parte di aziende americane, in particolare quando gli investimenti saranno destinati a Paesi emergenti o in via di sviluppo. E qui inizia la nuova sfida dell’amministrazione americana: rafforzare, ammodernare e rendere più competitiva l’economia americana al proprio interno per poter garantire una proiezione internazionale economica e strategica in grado di controbilanciare le aspirazioni dei rivali strategici degli Stati Uniti. Resta da vedere se potrà essere vinta.

Fonte: Ispionline.it

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