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La più grande riforma fiscale della storia indiana

La più grande riforma fiscale della storia indiana

Dal primo luglio in India è entrata in vigore la Goods and Service Tax (Gst), una tassa nazionale simile alla nostra Iva che rende di fatto il paese u

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Dal primo luglio in India è entrata in vigore la Goods and Service Tax (Gst), una tassa nazionale simile alla nostra Iva che rende di fatto il paese un gigantesco mercato unico. La riforma, introdotta in pompa magna dal governo Modi, eliminerà una serie di tasse locali e dovrebbe rendere più semplice fare business nel paese: una visione governativa eccessivamente rosea su cui incombono diversi dubbi.

Nei mesi scorsi si è parlato dell’avvento della Gst in India come della più grande riforma fiscale nel paese dal 1947 ad oggi; facendo la tara sulle iperboli governative, non siamo troppo lontani dalla realtà.

L’Iva unificata indiana, che si applicherà a tutti i prodotti e i servizi venduti in territorio indiano, pone fine a un regime fiscale particolarmente ingarbugliato, fatto di tasse nazionali, locali, sulla produzione e sulla vendita differente da stato a stato (in India ce ne sono 29, più sei territori speciali). Risultato: le spese delle imprese lievitavano, assieme al prezzo al consumatore, senza contare il dedalo di permessi e burocrazia che costringeva gli autotrasportatori indiani a ore di fila alle dogane statali.

Con la Gst, soprannominata dal premier Narendra Modi «Good and Simple Tax», ogni prodotto o servizio in vendita nel mercato nazionale sarà soggetto a un’unica imposta finale ma di diverso «peso» a seconda dei prodotti. Sui beni di prima necessità – in gran parte alimenti base – la Gst sarà allo 0 per cento, salendo progressivamente a 3, 5, 12, 18, e 28 per cento a seconda della «necessità» del bene. Fuori scala, con una Gst ad hoc altissima, finiscono i beni cosiddetti «peccaminosi» come i derivati del tabacco, tassati al 280 per cento.

La categorizzazione dei prodotti è stato il primo punto di criticità della riforma e ha raccolto numerose polemiche: gli assorbenti, ad esempio, sono stati considerati beni «non essenziali»e saranno quindi tassati al 12 per cento; per contro, i simboli femminili della tradizione hindu (i bindi, puntini rossi che si mettono in fronte le donne sposate, il sindoor, la polvere rossa che le donne sposate mettono perpendicolarmente l’attaccatura dei capelli sopra la fronte, e i bangles, i bracciali) saranno esentasse; o ancora, in un articolo molto critico sul Gst pubblicato dall’ex ministro delle finanze dell’Indian National Congress P. Chidambaram, ci si chiede se i KitKat siano da considerarsi cioccolato o biscotti, che rientrano in due categorie di tassazione distinte.

Ad aggiungere un elemento di caos a un riallineamento dei prezzi in tutto il paese, con conseguente riallineamento delle imposte da pagare per i produttori e i venditori, sarà l’obbligo di consegnare la dichiarazione dei redditi esclusivamente online, collegandosi al sistema denominato Gst Network, almeno una volta al mese. Un impegno che se per le grandi compagnie sembra tutto sommato sostenibile (anche se si parla di decine di dichiarazioni dei redditi all’anno, considerando che alcune vanno al fisco nazionale, altre al fisco statale), per milioni di piccole imprese in India sarà un incubo e, con ogni probabilità, disincentiverà l’uscita dall’evasione fiscale, tra le più alte del pianeta.

Senza contare che, a detta degli stessi architetti del Gst Network, il sistema di pagamento online privato a cui si è affidato il governo indiano, non funziona ancora a pieno regime.

Secondo le previsioni di diversi istituti bancari internazionali, l’introduzione della Gst in India dovrebbe portare a un incremento del Pil tra lo 0,5 e i 2 punti percentuali; ipotesi che l’economista Govinda Rao, intervistato dal Telegraph di Calcutta, tende ad accantonare in favore di un attendismo generale degli investitori internazionali, per vedere quale sarà l’effettiva implementazione del nuovo regime fiscale.

eastwest.eu

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