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Pitigrilli: la penna affilata di una spia a fianco dell’ OVRA

Pitigrilli: la penna affilata di una spia a fianco dell’ OVRA

Un personaggio scomparso dalla storia. Svanito nell’oblio che non di rado spetta a colui che è stato, ma le cui opere vengono costrette sullo scaffale

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Un personaggio scomparso dalla storia. Svanito nell’oblio che non di rado spetta a colui che è stato, ma le cui opere vengono costrette sullo scaffale del dimenticatoio, finché non se ne scriva o non se ne parli. Dino Segre, consegnatosi al secolo scorso con lo pseudonimo di Pitigrilli, oltre che romanziere, fu spia dalla penna affilata assoldata dall’OVRA: la polizia segreta, ma sarebbe meglio dire “politica”, dell’Italia fascista tra il 1930 e il 1943. Poi rimasta in auge nella Repubblica Sociale Italiana strenuamente tenuta dal Duce e dai suoi fedelissimi, fino al 1945.

La piovra e piccolo grigio

Se l’origine del nome inquietante della polizia politica del Duce non è mai stato oggetto di approfondite ricerche e adeguata documentazione venne considerato come acronimo di “Organizzazione di Vigilanza e Repressione dell’Antifascismo”. Ma anche solo come parola che aveva assonanza con “piovra”, il cui primo nucleo operativo fu formato a Milano nel 1927, dopo l’investimento della ragguardevole cifra di quaranta milioni di lire e l’indicazione di fornirle tutte caratteristiche tipiche di un’agenzia governativa segreta cui spettava il compito per l’appunto di vigilare e se necessario reprimere organizzazioni comuniste, sovversive e antifasciste.

L’origine dello pseudonimo Pitigrilli invece, nato a Torino il 5 maggio 1893 da padre israelitico e madre cattolica, viene raccontata dall’autore nelle sue biografie, e trae origine dalla curiosità per un cappotto di pelliccia indossato da sua madre. Alla domanda che teneva ad indagare a quale animale fosse costato la pelle, la madre gli rispose che era di “Petit-gris, di piccolo scoiattolo russo”. Per lui divenne Pitigrilli. Il nome che cercava. Lo pseudonimo perfetto con il quale si firmerà fino alla morte. Tranne quando inizierà a stilare quei rapporti segreti per la polizia politica del regime. Dove compariva il suo identificativo: agente numero 373.

Per l’OVRA, che è al corrente delle antipatie nutrite nei suoi confronti dal Duce e dal Partito Nazionale Fascista in generale, non era un problema fosse di padre israelita o se avesse la fama d’essere uno scrittore spregiudicato, autore di romanzi brillanti ma irriverenti, spesso a sfondo erotico, e per questo tacciati di pornografia. L’agente 373 era troppo ben inserito negli ambienti dell’intellighenzia che pianificava l’opposizione al regime e si fidava di lui – che pure era stato accusato d’essere un anti-italiano, oltre che un cocainomane e un omosessuale. Due di queste accuse si riveleranno avere un fondamento, l’ultima, a quel che ci è dato sapere, no.

Pitigrilli era soltanto un libertino ben inserito nell’alta società torinese che come piaceva ricordare a lui “se non parlava il piemontese parlava il francese”. E lo era, ben inserito, anche nella comunità ebraica a cui in parte apparteneva. Un animo complesso che s’innamorò – venendo contraccambiato – della sua primissima ispiratrice, la poetessa Amalia Guglielminetti e che in seguito si sposerà due volte, pur dichiarandosi in spesse occasioni inadatto alla vita da consorte e alle beghe coniugali che gli portarono comunque due eredi.

Avvicinato dalla piovra agli inizi degli anni ’30, dopo essere stato arrestato anche lui nel 1928 per aver “offeso la figura di Mussolini” a mezzo stampa, Pitigrilli divenne al contrario di quanto un grigio censore potesse immaginare, “talmente apprezzato” nel suo lavoro – descritto in più occasioni come una collezione di “tanti piccoli capolavori di sintesi psicologica” sugli uomini che doveva spiare -, da motivare un discreto esborso di denaro nei suoi confronti. L’OVRA arriverà a destinargli ogni mese assegni di ben cinquemila lire. Uno stipendio notevole, che sommato a diritti d’autore dei suoi romanzi sempre apprezzati dal grande pubblico, consentiva ad un mammifero di lusso come lui di condurre la vita dispendiosa e raffinata tra spionaggio, letteratura e giornalismo.

La missione dello “scoiattolo grigio”

L’uomo che scriveva romanzi scabrosi, irriverenti, allusivi, da una prosa pungente e non priva di un certo sarcasmo, redigeva pure, con la stessa macchina da scrivere, dossier destinati all’OVRA che avrebbe sguinzagliato i suoi cacciatori di antifascisti per fare piazza pulita dell’opposizione clandestina. Data la presenza di acute osservazioni, che spaziano dalle succitate analisi psicologiche degli individui che sorveglia in segreto, ad informazioni degne degli scoop giornalistici, Pitigrilli venne inviato a Parigi per prendere contatto con la mente del gruppo di Giustizia e Libertà. Una cerchia di intellettuali torinesi che gira intorno alla figura di Carlo Rosselli, ormai in esilio, del quale Pitigrilli sa guadagnarsi la fiducia.

Il gruppo, attivo a Torino, svolge attività illecite come la propaganda sovversiva e la formazione di adepti che dovranno formare le fila dell’antifascismo. L’agente 373 entrerà così a contatto con i sovversivi che avevano trovato un leader nel carismatico Leone Ginzburg, fondatore della casa editrice Einaudi, e fornisce all’OVRA tutte le informazioni per procedere all’arresto di Vittorio Foa (15 anni di reclusione, ndr), e di tutti gli altri “ex-allievi” del Liceo d’Azeglio: Norberto Bobbio, Massimo Mila, Giulio Einaudi. E al confino di Carlo Levi e Cesare Pavese. Oltre ovviamente a quello di Ginzburg. I fratelli Rosselli invece, verranno assassinati da alcuni estremisti appartenente all’organizzazione estremista della destra francese, la Cagoule, nel 1937. Probabilmente su commissione della stessa “piovra” che aveva ricevuto le informazioni dallo “scoiattolo grigio”.

Un israelita da defenestrare

Con il passare del tempo e l’avvicinamento del capo del Fascismo al problema della questione ebraica, i rapporti tra Pitigrilli e  l’OVRA cominciano ad incrinarsi. Nel 1939 la polizia segreta del regime invia a Parigi una spia con l’ordine di pedinare l’intellettuale che non “rende” più come dovrebbe. L’agente 373 non fornisce più informazioni degne di nota, nonostante il compenso che gli viene pagato. “È svogliato” e più interessato agli svaghi mondani che alla rigida sorveglianza di possibili reti antifasciste che si sono rifugiate oltralpe. La promulgazione delle leggi razziali e lo scoppio del conflitto che agiterà ulteriormente gli animi del PnF, finirà per spingere l’OVRA a liberarsi di quella spia israelita che scrive romanzi pornografici e articoli di giornali impudenti. La penna avvelenata che non si era mai risparmiata nel prendersi gioco di tutto e tutti.

Spogliato della protezione dell’OVRA, nel giugno nel 1940 sarà mandato addirittura al confino, a L’Aquila. Dovrà intervenire la sua amica Edvige Mussolini per “liberarlo”. Nel 1943, quando nell’Italia spaccata in due le cose minacciano di mettersi male, fugge in Svizzera. Ma la sua vita è ormai segnata da una stigmate indelebile, che verrà rivelata appena terminata la guerra. Già emarginato nel 1945 per i sospetti nutriti sul suo conto, nel 1946, in seguito della pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale dell’elenco dei confidenti della polizia fascista, Dino Segre, in arte Pitigrilli, viene scoperto essere stato un collaboratore del regime accusato dei più infami crimini di guerra. A nulla servirà l’aiuto di un giovane Giulio Andretti, poiché la colpevolezza era “irrefutabile” secondo la Commissione che ne aveva esaminato il ricorso.

Ogni strada viene preclusa a quello scrittore polimorfo, che rischia di incappare in vendette e ritorsioni. Si trasferisce in Argentina, per fare ritorno a Parigi solo dopo la metà degli anni ’50. Per mantenersi, firmerà articoli con il nuovo pseudonimo di Flamel, allontanandosi molto dallo stile pungente e disinvolto che un tempo aveva spinto D’Annunzio a sfidarlo a duello dopo l’affondo sferrato sulla carta stampata ai danni del Vate. Per Pitigrilli il rispettare un’idea aveva sempre significato “rendersi complice di un’ipocrisia altrui”. L’anticonformismo della sua gioventù come il conformismo della sua maturità, potevano entrambe iscriversi dunque nell’ipocrisia suggerita dal momento. Da quel momento in poi abiterà a Parigi come l’aveva abitata in gioventù, con le pose del vecchio saggio redento e con il fardello dello scomodo passato sul quale, non è illegittimo pensarlo, si sarà a lungo interrogato. Morì nella sua città natale, tre giorni dopo il suo ottantaduesimo compleanno, nella casa a via Principe Amedeo. Era il 1975.

Se si sia mai pentito o perdonato per aver concesso i suoi servigi alle mefitiche idee del Fascismo liberticida e spione, non abbiamo prova certa. Di sicuro tradì la fiducia di molti, e da altrettanti venne tradito nella fiducia. Forse da vecchio saggio cattolico qual era diventato in un percorso di ipotizzabile redenzione, terminò con l’affidare la sua anima a quel genere di clemenza individuale che assurge non di rado confessione universale: “Con nessuno osiamo essere impudicamente bugiardi come con noi stessi”. Pitigrilli nel corso della sua vita mai osannata dai critici di bandiera, che oggi come un secolo fa hanno sempre saputo ostentare snobismo nei suoi confronti, dev’essersi senza dubbio mentito molte volte. Tutte le sue verità – tranne una – rimangono custodite per sempre nei suoi romanzi.

Fonte: Insiderover.it

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