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Il bla bla bla delle morti sul lavoro

Il bla bla bla delle morti sul lavoro

Se fosse un film, ma purtroppo non lo è, dovrebbe cominciare dall’epilogo. Da un gruppo di studenti delle scuole secondarie superiori che protestano c

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Se fosse un film, ma purtroppo non lo è, dovrebbe cominciare dall’epilogo. Da un gruppo di studenti delle scuole secondarie superiori che protestano contro una morte ingiusta e vengono caricati dalla polizia. Dall’epilogo bisognerebbe passare subito al prologo. La storia di un ragazzo di 18 anni che muore schiacciato da una trave d’acciaio. Nel mezzo, soprattutto sui social media, si scatenano i flame: “È stata l’alternanza scuola lavoro”. “Siete degli ignoranti, non è l’alternanza scuola-lavoro, si chiama in un altro modo”. E via di questo passo. Bla bla bla.

È della sindacalista (e scrittrice) Simona Baldanzi il commento che mi ha colpito di più. Baldanzi racconta del suo lavoro come sindacalista, di una ragazza molto giovane che entra in CGIL in cerca d’impiego, pensando che la “camera del lavoro” sia un’agenzia interinale; di un ragazzo che le dice che lo sciopero è illegale; di una ragazza che chiede la Naspi ma non sa che cosa sono i contributi.

Il problema però non è dei ragazzi. Ci sono adulti che lavorano da anni e che non hanno mai messo piede in un sindacato, né partecipato a uno sciopero. Molto spesso non è che non ne hanno voglia: non possono proprio farlo. Sarebbe infame colpevolizzare gli studenti per ignoranze che riguardano non loro o le loro famiglie, ma la società che ha fatto di tutto per disintermediare le parti sociali, individuando nelle classi lavoratrici e nei sindacati che le tutelano un nemico, nel nome del mercato, dell’individualismo, della retorica tossica del “farcela da soli col duro lavoro”, che è poi un velo per mascherare lo sfruttamento. E intanto il lavoro inghiotte ogni giorno tre persone, uccise nel nome del profitto. Ogni giorno il solito bla bla bla e succede sempre anche il giorno dopo. Il risultato del deserto creato in anni di mancate riflessioni sullo sfruttamento e sulle classi è questo: che gli sfruttati non si percepiscono come sfruttati ma come consumatori con poche risorse. Che il lavoro è visto come un accordo commerciale tra privati e non come un diritto collettivo mediato da organizzazioni pubbliche. La differenza è sostanziale: nell’accordo tra privati uno pone tutte le condizioni e l’altro le accetta tutte, con poco o nessun margine di contrattazione. Molti lavoratori di oggi pensano che andare al lavoro implichi fare tutto quello che il datore di lavoro chiede, fino al punto che un cameriere si ritrova a lavare l’automobile privata del ristoratore. Un capitalismo della piantagione: i lavoratori sono schiavi che devono fare di tutto nel momento in cui entrano nel campo o nella casa padronale.

In questo contesto parlare di “insicurezza” serve a poco, se lo si fa senza strumenti che possano mettere i datori di lavoro alle corde. Anche la parola sembra sempre più arrugginita. Perde pezzi semantici, è insicura di quel che denota. Ne abbiamo parlato così tanto sui media che non si capisce più cosa vuol dire questa parola, stremata da tensione inflazionista. Fino a qualche tempo fa “insicurezza” era l’orrore dei bravi cittadini decorosi (e solvibili) davanti alle gesta dei poveri che si siedono sugli scalini di Santo Spirito a Firenze (o altrove) a consumare birre invece di recarsi al pub fighetto dai costi proibitivi; oppure il termine era evocato con sdegno per denotare, col dito indice puntato, gli immigrati seduti sul muretto vicino alla stazione. Ma la stessa parola ha un significato diverso se sei una persona di classe lavoratrice: per te l’insicurezza è la possibilità quasi matematica di farti male (o perdere la vita) lavorando, qualcosa che diminuisce tanto più sei privilegiato. Parliamo tanto di sicurezza, ma non diciamo le stesse cose e finiamo per buttarla nel bla bla bla.

Tra l’altro sul senso delle parole che diventano virali nella semiosfera bisognerebbe riflettere a lungo. “Il mondo del lavoro” un tempo era sinonimo di operai e sindacati, oggi indica ristoratori (che non trovano lavoratori “per colpa del reddito di cittadinanza”), imprenditori, eccetera. Prima si parlava di “diritti del lavoro”, ora si parla di “mercato del lavoro” (con i suoi odiosi “costi” e gli imprenditori “strozzati dalle rigidità del mercato” da abolire assolutamente con la prossima riforma). Le parole slittano di senso e la retorica non è mai neutrale. Una valigia non vuol dire la stessa cosa per una persona con disabilità o per un atleta, un uomo solo che si muove verso di te per strada di notte vuol dire una cosa diversa se sei una donna o un uomo, e anche queste parole su cui in queste ore nei social ci si dà battaglia, parole come “tirocinio”, stage, alternanza scuola lavoro, PCTO, assumono un significato diverso se siete un maschio attempato con un posto di lavoro garantito o una giovane studentessa di famiglia lavoratrice priva di capitale culturale, costretta a trovare un impiego, a volte “a qualsiasi costo”. Tra i due c’è una differenza abissale di potere e privilegio. Per questo mi rifiuto in questi giorni di leggere i social con i commenti sulla morte di Lorenzo Parelli, a meno che a parlare e scrivere non siano giovani studenti o studentesse o qualche sindacalista. Bisogna ascoltare chi ha i piedi dentro alla melma, il resto è spesso il solito bla bla bla di chi pontifica dalla sua zona di comfort.

Intanto proprio nella comfort zone dei media da un po’ di tempo si è cominciato a parlare di insicurezza senza puntare il dito contro i migranti. Si parla di lavoratori morti, anche se lo si fa solo quando ci sono certi standard di “notiziabilità”, come si dice nel gergo tecnico del giornalismo. Il rischio è di inquadrare queste vicende in una cornice fuorviante. Come nel caso di Luana D’Orazio, la giovane operaia del tessile di Prato stritolata da un macchinario. Ne hanno parlato come di una Cenerentola che non aveva trovato il suo Principe azzurro e che quindi era costretta a un lavoro malpagato. Come una mamma giovane e bella ma sfortunata. Ma Luana d’Orazio non è morta di malasorte. Ci ricordiamo solo gli operai morti che sono incorniciabili meglio in frame emotivi da talk show, ma ce li ricordiamo male, silenziando le vere ragioni per cui sono morti. E in questo modo produciamo una comunicazione emotiva che non va mai al nodo delle questioni, che non rimuove le ragioni di quelle morti. Così si spengono le luci della ribalta e il giorno dopo ne muoiono altri tre.

Per ridurre le morti sul lavoro bisogna che la palla del gioco venga tolta agli imprenditori e alle loro associazioni e passi ai lavoratori e ai sindacati. Ogni volta che sento un imprenditore parlare della necessità di abbassare i costi del lavoro, mi preparo a capire chi sta per morire. Il costo del lavoro non si può abbassare. Si può far pagare ad altri. Se lavori male e di furia perché hai un contratto capestro, il “padrone” (siamo in piantagione e chiamo le cose con il loro nome) aumenta i profitti ma tu paghi il costo del lavoro che lui risparmia. Se muore un lavoratore, il costo del lavoro lo paga la famiglia del morto. Se ti infortuni sul lavoro o contrai una malattia professionale, il costo del lavoro va a carico della collettività: il padrone aumenta l’estrazione di profitto e la collettività ha una malattia professionale e un carico previdenziale da curare per tutta la vita del lavoratore. Come la “sicurezza”, l’espressione “riduzione del costo del lavoro” non è un’etichetta semantica neutrale. È altamente ideologica, è lotta di classe fatta dall’alto nel campo delle parole: esprime gli interessi dei datori di lavoro, sulla pelle dei lavoratori.

Ci sono stati negli anni infortuni durante quella che genericamente chiamiamo l’alternanza scuola-lavoro, con danni fisici anche gravi. La cronaca registra anche un caso di molestie sessuali avvenuto a Monza nel 2017, con la denuncia di quattro studentesse contro il proprietario di un centro estetico. Questo è forse il caso più grave, ma lavorare da minorenni espone a molteplici abusi. Lo stage si può fare anche nei ristoranti, ambienti che ho frequentato per quasi una decina di anni come cameriere, barista, sguattero e pizzaiolo. Una studentessa che fa la cameriera in un ristorante si espone a un ambiente in cui non mancano abusi e molestie. Verbali, emotive, psicologiche, a volte sessuali. Fare un tirocinio o un’esperienza di lavoro da minorenne nella ristorazione significa anche questo. Magari è una esperienza breve, la ragazza sa che continuerà a studiare e quel posto di lavoro lo cederà a qualcuno meno fortunato che lo terrà per anni. Ma anche qui, nei lavori della ristorazione, ci sarebbe da sollevare un velo impietoso di tossicità.

“Si cresce anche così”. Ho letto anche questo sui social, nei commenti sui tirocini. Ogni tanto qualche vecchio maschio bianco ci ricorda nostalgicamente “il culo che si è fatto da giovane”. Lo ricorda ai giovani, che notoriamente vengono accusati in maniera sistematica di non aver voglia di lavorare (come ci ricordano le critiche strumentali al reddito di cittadinanza). Ce lo ricorda con l’aria di chi ha patito tanto, animato da giustizia negativa, con lo storytelling di “quello che si è fatto da solo” ma che poi “con la forza del carattere”, bla bla bla. La retorica per cui si cresce attraverso esperienze funeste è patriarcale e in genere è un indice dell’odio verso i giovani, tipico di una società anziana come quella italiana. Ricordate lo scandalo della giornalista che venne molestata davanti allo stadio Castellani di Empoli mentre in studio il conduttore del programma le diceva: “Non te la prendere. Si cresce anche con queste esperienze”? Ecco, ogni volta che uno studente o una studentessa si espone nei tirocini a sfruttamento, insicurezza, abusi e molestie, ogni volta che glissiamo, che diciamo che anche queste sono esperienze formative, siamo complici di una ideologia infausta, maschilista, patriarcale, asservita agli imperativi del mercato. Stiamo dicendo ai ragazzi che se si fanno sfruttare, devono abbassare la testa. Lo facciamo da una posizione di privilegio, sapendo che a noi non cascherà una trave d’acciaio in testa. Parliamo e mettiamo a tacere le uniche voci che contano, quelle di chi sta con i piedi dentro gli abusi, l’insicurezza, lo sfruttamento. La voce degli studenti e delle studentesse.

Bisogna sia chiaro una volta per tutte che formarsi non vuol dire farsi sfruttare o imparare a subire la tremenda gerarchia del lavoro. Bisogna dire no a quelli che in inglese si chiamano bad boss, ai padroni che tengono i lavoratori sotto ricatto emotivo e pensano di imporre nel lavoro logiche familistiche (“per me è come un figlio”, “è uno di famiglia”), perché quelle logiche e quelle retoriche riproducono proprio il peggio delle nostre società e delle nostre famiglie: l’asservimento di chi non ha potere verso chi ce l’ha. E producono ferite. A volte le ferite sono emotive, sempre sono economiche, qualche volta, come nel caso di Lorenzo Parelli, sono letali.

In conclusione, provo anch’io da vecchio maschio bianco a dire la mia: è importante formare al lavoro? Sì, sicuramente. Dico di più: mi piacerebbe vedere i figli dei privilegiati fare i tirocini di lavoro in fabbrica e quelli degli operai studiare la sineddoche e la metonimia o formarsi come giornalisti, per vedere l’effetto che fa. Ma purtroppo le cose vanno diversamente e gli stessi ragazzi che vengono da famiglie di lavoratori vogliono spesso trovare un lavoro manuale quanto prima. Ma da una scuola che si pretende democratica e non asservita al mercato, da buon utopista mi aspetto che fornisca strumenti per lavorare senza essere sfruttati. Con corsi di sindacalismo e moduli sui diritti lavorativi. Con stage da fare negli ispettorati del lavoro e nei sindacati. Pagandoli, perché il lavoro che non si paga è sfruttamento. Affiancandoli negli stage ai RSU e ai responsabili della sicurezza. Con uscite formative e visite di fabbriche occupate come la GKN e la Caterpillar di Jesi. Altrimenti non è formazione, è sfruttamento. Lo so, è un sogno ad occhi aperti, ingenuo e privo di fondamenti. Insomma, anche questo è il solito bla bla bla.

Per evitare il bla bla bla, vorrei che a parlare dei tirocini e degli stage, dell’alternanza e dei PCTO fossero gli studenti e le studentesse. Che ascoltassimo le loro voci senza imporci con le nostre retoriche che chiudono loro la bocca. Proviamo per una volta ad ascoltare il disagio degli studenti e dei giovani lavoratori. Se gli studenti si mobilitano e protestano contro l’alternanza scuola lavoro, non possiamo liquidare la questione con condiscendenza da un lato, paternalismo dall’altro e qualche manganellata nel mezzo. Se dicono no, è un no. Vale nei rapporti sentimentali, vale a scuola, vale sul lavoro. No vuol dire no. Bisogna dire no al lavoro insicuro, non sindacalizzato, sfruttato, umiliante. Tutto il resto è bla bla bla, pesante e letale come una trave d’acciaio.

Fonte: Valigiablu.it

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