HomeLa Riflessione di Giancarlo Elia Valori

Libia: luci e ombre sul processo di pace

Libia: luci e ombre sul processo di pace

Dopo sei giornate di intensi colloqui a porte chiuse tra i 75 delegati delle varie fazioni libiche convocati a Tunisi dall’inviato delle Nazioni Unite

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Dopo sei giornate di intensi colloqui a porte chiuse tra i 75 delegati delle varie fazioni libiche convocati a Tunisi dall’inviato delle Nazioni Unite Stephanie Williams, il 15 novembre si è conclusa la prima tornata di negoziati che hanno sì confermato il “cessate il fuoco” ma non sono riusciti a trovare un accordo sulla selezione dei candidati a far parte di un nuovo governo “di unità nazionale”.

Nei prossimi giorni, la Williams ha riconvocato in “sessione virtuale” un secondo round di quello che è stato definito il “Libyan Political Dialogue Forum” (LPDF), con l’ambizione di riuscire a formare un Esecutivo in grado di gestire le elezioni politiche nazionali previste per il 24 dicembre del 2021.

La diplomatica statunitense, nell’ammettere il parziale fallimento dei colloqui di Tunisi, ha dichiarato con franchezza che non era “realisticamente possibile trovare soluzioni a un conflitto che dura da dieci anni in una semplice tornata di negoziati”. Tuttavia, ha sottolineato la Williams,”si intravede la possibilità di un accordo su tre importanti aspetti delicati della trattativa e cioè i doveri del nuovo Esecutivo, i criteri per le candidature ai posti di governo e la tabella di marcia del processo di pace.

I politici libici hanno ora la possibilità di occupare efficacemente la scena o di finire estinti come dinosauri”.

Parole dure che lasciano trasparire la delusione per un negoziato che vede le parti in causa (il governo di Tripoli retto da Fayez Al Serraji, la fazione di Tobruk comandata dal generale Khalifa Haftar e le tribù indipendentiste del Fezzan) disposte a rispettare la tregua armata, ma poco inclini a fare concessioni politiche alle controparti.

Certo non era semplice far convergere su un percorso di dialogo politico gli stakeholders libici che fino alla scorsa estate si sono combattuti in campo aperto.

Non era semplice anche per l’attivismo dietro le quinte degli sponsor internazionali delle fazioni contrapposte: Turchia e Qatar alle spalle di Al Serraji e sauditi, Stati del Golfo, egiziani, russi e francesi a sostegno della “Libyan National Army” di Haftar, mentre a fianco delle tribù del Fezzan è apertamente schierata la Francia di Macron.

Durante i colloqui di Tunisi, tutti i delegati hanno sistematicamente fatto filtrare alla stampa bozze fasulle di possibili accordi, allo scopo di bruciare le proposte delle controparti.

Secondo l’ ”Agenzia Nova” sono stati diffusi documenti apparentemente ufficiali contenenti riferimenti agli argomenti realmente in discussione inquinati da parti totalmente inventate: “Vere e proprie bozze avvelenate pervenute da fonti libiche vicine al generale Haftar”.

Sono anche circolate voci malevole sulla possibile corruzione a suon di dollari di alcuni delegati, per favorire la nomina nel nuovo esecutivo di Abdullh al Dabaiba, potente “signore della guerra” di Misurata e fondatore del movimento “Futuro per la Libia”. E’ bene ricordare che proprio le milizie di Misurata, grazie alle armi turche e ai mercenari islamisti fatti affluire da Erdogan il Libia dalla Siria, hanno salvato il governo di Al Serraji dal collasso, quando le milizie di Haftar, nello scorso mese di aprile, erano arrivate alle porte di Tripoli.

Comunque, nonostante le difficoltà, la Williams, nella sua relazione al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, ha evidenziato anche aspetti positivi della situazione sul terreno.

In primo luogo la tregua militare regge: il “cessate il fuoco” non registra significative violazioni, mentre “continua lo scambio di prigionieri, facilitato dal Consiglio degli Anziani, con il supporto della Commissione Militare mista”.

Altro risultato importante è stato conseguito nel settore del petrolio: La National Oil Company, con l’accordo di tutte le parti in causa, ha ripreso la produzione a pieno ritmo di petrolio che è rapidamente tornata ai livelli dello scorso anno, co 1,2 milioni. Tuttavia la distribuzione trasparente dei proventi petrolifere deve essere rimandata a un accordo tra tutte le parti in causa, in attesa del quale la National Oil Company accantonerà il ricavato dalla vendita del petrolio in un apposito conto controllato dall’ONU.

E’ questo un aspetto delicato che riguarda il nostro Paese direttamente: la ripresa dell’estrazione del greggio, significa molto pe l’ENI che, lasciata sola dalle istituzioni nazionali a giocare pericolosamente nelle tensioni tra le fazioni libiche contrapposte, è riuscita ad accreditarsi come interlocutore credibile e affidabile e a mantenere in piedi le sue attività di estrazione, produzione e raffinazione in Libia.

Nel concludere il suo briefing al Consiglio di Sicurezza, Stephanie Williams ha sottolineato: “A Tunisi, settantacinque libici si sono riuniti…in uno sforzo in buona fede per avviare il processo di guarigione delle ferite della loro nazione… hanno teso le mani, se non il cuore l’uno all’altro.”

“Non il cuore”: questa è l’ombra più pesante sui colloqui di Tunisi, un’ombra che si allunga su un processo di pace nel quale il ruolo dei protagonisti nazionali viene spesso influenzato e manipolato dai vari sponsor internazionali. E gli sponsor non agiscono certamente pper ragioni di “cuore”.

Sul fronte del governo di Tripoli, i due alleati fondamentali sono la Turchia del presidente Tyyp Recep Erdogan e il Qatar del giovane emiro Tamin bin Hamad Al Thani.

I due Paesi, nonostante l’adesione del primo alla NATO e del secondo al Consiglio di Cooperazione del Golfo, hanno sposato la causa dell’estremismo mussulmano sostenendo più o meno apertamente le milizie jihadiste durante i conflitti civili in Siria, Iraq e, da ultimo, in Libia.

Al fianco di questi scomodi compagni di viaggio si trova, in un angolo appartato, l’Italia che nel 2016, con una mossa indubbiamente politicamente corretta, si è accodata alla Nazioni Unite che hanno imposto alla Libia una soluzione governativa di stampo neo coloniale, insediando prima a Tunisi e poi a Tripoli il “Governo di Accordo Nazionale” di Al Serraji. Soluzione “neo coloniale” in quanto il GNA non è stato riconosciuto da alcuno dei parlamenti di Tripoli e di Tobruk e non ha mai ricevuto una legittimazione elettorale o popolare.

Negli ultimi quattro anni, mentre Al Serraji controllava a stento la Capitale, la diplomazia italiana non sembra essere stata in grado di trovare una linea d’azione ben definita, in uno scacchiere di importanza vitale per il nostro Paese, che non fosse quella del “rispetto delle risoluzioni dell’ONU”, una scusa formale adottata anche dall’Unione Europea per giustificare il proprio immobilismo.

Come detto, di fronte all’impegno politico militare di Ankara e di Doha a favore di Al Serraji, ma soprattutto a sostegno delle milizie islamiste di Tripoli e di Misurata, gli Stati del Golfo hanno rotto le relazioni diplomatiche con il Qatar imputando al suo emiro una condotta avventurista a favore dei “Fratelli Mussulmani” in tutta l’area.

Non solo ma, insieme a Egitto, Francia e Russia, gli arabi del Golfo hanno costituito un’alleanza di fatto a tutela di due delle tre componenti politico-militari libiche, la “Libya Liberation Army” di Haftar e le milizie riconducibili alle tribù del Fezzan con le quali Parigi ha intessuto un rapporto di partnership quasi esclusivo.

Mentre le diplomazie interessate al Medio Oriente si muovono su più tavoli, basti pensare ai nuovi rapporti tra Emirati, Bahrein e soprattutto Arabia Saudita, con Israele, Italia ed Europa, forse anche per colpa della pandemia, sembrano immobilizzate su passive posizioni di principio sugli aspetti positivi del “multilateralismo”.

Di fatto, gli altri si muovono, anche in vista di possibili, futuri dividendi politici ed economici, Italia ed Europa assistono da spettatori allo svolgersi di eventi che avranno un impatto decisivo sui nuovi equilibri mediterranei del futuro prossimo.

Da oltreoceano non sembrano, peraltro venire buone notizie sugli impegni internazionali USA nel “dopo Trump”.

Il neo presidente Joe Biden ha designato nuovo, prossimo, Segretario di Stato, Antony Blinken .

Nonostante si tratti di persona colta, cosmopolita e garbata non si può dimenticare che Blinken è stato stretto collaboratore, durante le presidenze Obama, di Hillary Clinton, prima, e di John Kerry, dopo, due protagonisti in negativo delle relazioni internazionali che con il sostegno ingenuo alle finte “primavere arabe” hanno contribuito a sconvolgere Nord Africa e Medio oriente in nome di un miraggio che  vedeva per i paesi sconvolti dalle rivolte civili di matrice islamista un irraggiungibile traguardo di democrazia occidentale.

Il Dipartimento di Stato guidato da Hillary Clinton dopo aver fomentato e sostenuto militarmente la rivolta contro Gheddafi ha dovuto subire il sacrificio del suo ambasciatore in Libia, Chris Stevens, ucciso l’11 settembre 2012 a Bengasi dove era stato inviato per una confusa e abborracciata trattativa con gli islamisti di Ansar Al Sharia.

Sotto la guida di Kerry, con Blinken al suo fianco come vice Segretario di Stato, gli Stati Uniti hanno gestito in modo poco saggio sul piano politico e militare la crisi siriana, lasciando infine campo libero a Russia e Turchia.

Su queste basi, le prospettive di un ritorno in campo della diplomazia americana (messa parzialmente in sonno da Donald Trump) non sono particolarmente affascinanti, in uno scacchiere, come quello libico dove noi, nel nostro piccolo, non riusciamo neanche a imbastire una trattativa credibile per il rilascio dei diciotto pescatori di Mazara del Vallo, sequestrati dalle forze di Haftar da oltre due mesi.

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