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Uno scudo di silicio tra Taiwan e l’ invasione cinese

Uno studio del think tank Cnas prova a delineare i futuri possibili del triangolo strategico, con al centro i semiconduttori. Tra sicurezza della supply chain, competizione tecnologica e rischi di un’invasione militare. Un equilibrio complicato, ma serve maggiore coordinamento con gli alleati

Uno scudo di silicio tra Taiwan e l’ invasione cinese

La crisi dei chip sta mettendo a dura prova intere catene del valore, oltre ad aver stimolato una corsa ai ripari da parte di governi e aziende per au

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La crisi dei chip sta mettendo a dura prova intere catene del valore, oltre ad aver stimolato una corsa ai ripari da parte di governi e aziende per aumentare la capacità produttiva. Gli Usa, l’attore al centro dell’industria dei semiconduttori (con circa metà dello share di mercato e una posizione dominante nel segmento fabless), sono tuttavia in una posizione, al pari di Unione Europea e Giappone, di evidenti rischi per quanto riguarda l’approvvigionamento, contando solo il 12% della fab capacity.

Una concentrazione industriale che ha il suo cuore pulsante nell’isola di Taiwan, dove ha sede il colosso dei chip, TSMC. L’azienda fondata da Morris Chang detiene il 53% della quota del mercato delle fonderie, oltre ad essere l’unica a possedere il know-how per produrre i chip più avanzati. L’isola è da sempre nelle mire di Pechino per ragioni storiche e dinamiche di sicurezza regionale, ma è diventata negli ultimi anni il potenziale single point of failure di un complesso ecosistema che conta sulle conoscenze e sull’output di Taipei per la stabilità, e i progressi, del mercato digitale e delle tecnologie del futuro, civili e militari.

In quanto nodo centrale della filiera, Taiwan e TSMC sono dunque al centro di una partita multidimensionale e che necessariamente coinvolge un insieme di stakeholders che corre dal Pacifico fino all’Atlantico. Sui destini dell’isola, infatti, si gioca una “necessità strategica”, ovvero quella dell’accesso ai chip più all’avanguardia.

Ed è per fare chiarezza sui possibili scenari, legati alle mosse e contromosse dei tre principali attori in gioco e sugli strumenti messi in campo, che un gruppo di analisti del Center for a New American Security (Cnas) ha elaborato un chip game per offrire una serie di spunti e raccomandazioni nella gestione di questo complicato, e decisivo, dossier.

A partire da un incontro virtuale condotto nell’aprile del 2021, coinvolgendo trenta esponenti del governo, dell’industria e della società civile, gli analisti del Cnas hanno cercato, utilizzando tre team artificiali (blu per gli Stati Uniti, verde per Taiwan e rosso per la Cina), di fare chiarezza su due quesiti: capire come Pechino potrebbe manipolare l’industria dei semiconduttori e la competizione tecnologica a suo favore, e come Washington e Taipei reagirebbero a tale sfida.

Gli attori sono stati dunque calati in un ipotetico gennaio 2025, periodo di intensa competizione strategica tra Usa e Cina e in cui la dipendenza di entrambi per la fornitura di chip è rimasta più o meno la stessa, nonostante le ambiziose politiche industriali. In seguito ad una crisi politica sull’ambiguità del supporto statunitense a Taipei, tre complessi industriali di TSMC sono costretti a stoppare la produzione per motivi sconosciuti. “The Chips Are Down”. Le conseguenze per la supply chain sono catastrofiche. Un’eventualità che ha guidato i tre team ad immaginare, e orientare, le possibili reazioni, con cinque indici chiave: opinione pubblica (supporto politico dei governi coinvolti); livello tecnologico (o grado di esposizione al supply risk); benessere delle imprese end useoutput produttivo in quel dato momento; e domanda di chip globale. Un modello rappresentativo, ma semplificato, dell’industria dei chip che ha consentito di stimare l’impatto di ciascun indice sulle risorse e capacità di ciascun team per le rispettive strategie di ingaggio.

I risultati e le osservazioni sono piuttosto controintuitivi e si discostano da una previsione monolitica, con lo strumento militare come unico e ultimo strumento di coercizione. Sicuramente il dato di partenza è che, come aveva affermato in un suo precedente intervento uno degli autori del game, Martijn Rasser, “la più grande preoccupazione per Washington è la possibilità che Pechino si appropri della capacità produttiva di semiconduttori di Taiwan”. Ma è proprio l’intersezione tra sicurezza e tecnologia che rende la questione estremamente complessa.

“La posizione di Taiwan”, si legge nello studio, “è il risultato finale di una strategia ultima di tecno-nazionalismo: il connubio tra l’abilità nella microelettronica e la sua sopravvivenza nazionale, soprannominata ‘scudo di silicio’”. In breve: la necessità di un ombrello securitario, con l’ombra di Pechino a 90 miglia di distanza, incentiva Taipei a rimanere il nodo decisivo e strategico nell’industria globale dei semiconduttori, scoraggiando Usa e Cina a perseguire una vera e propria autosufficienza. Perché Taiwan “sta trattando l’accesso ai semiconduttori per la sua sicurezza”. Una posizione che rende potenziale un conflitto, ma al contempo si presta ad essere un deterrente formidabile. Ed è in questa grey zone che, secondo lo studio, si giocheranno le reali carte e dove i tre team hanno provato a cimentarsi. Dalle sanzioni economiche, passando per il reclutamento di ingegneri, fino a campagne di disinformazione. Mentre l’invasione militare rimarrà l’estrema ratio, seppur rimanga difficile stabilire quale possa essere la soglia critica per Pechino. Più probabile “un’invasione industriale”, attraverso la combinazione di azioni diplomatiche, propagandistiche ed economiche.

Tra le osservazioni più interessanti, vi è l’idea che esista “una fondamentale mancanza di allineamento tra gli interessi degli Stati Uniti e di Taiwan sui semiconduttori”. Da una parte gli Usa sono sempre più consapevoli dei rischi che corrono su di una dipendenza così marcata sul lato delle forniture, e sulla difficoltà al contempo di riportare in patria conoscenze tecniche, impianti di produzione che Taipei non è incline a condividere al punto da compromettere la sua posizione di forza dal punto di vista tecnologico. Un gap che si estende all’approccio dei due alleati verso Pechino: Washington sta cercando di tenere a distanza Pechino, rallentando il suo percorso verso la sovranità tecnologica, ed in questo contesto di “weaponization” della catena del valore Taipei è rimasto nel mezzo, strumento e oggetto della competizione.

Inoltre, la questione è difficilmente perimetrabile al triangolo Usa-Cina-Taiwan: vi sono altri attori centrali lungo la filiera, dagli olandesi di ASML per la litografia ultravioletta, ai materiali forniti dalle aziende giapponesi. La mancanza di un coordinamento multilaterale è pertanto ritenuto un potenziale vulnus strategico a vantaggio di Pechino, che potrebbe sfruttare le divergenze di interessi e approcci attraverso tattiche ibride. Senza contare che “quello che accade a Taiwan, non rimarrà a Taiwan”, con effetti a catena lungo la filiera.

In conclusione, sono dunque quattro le sfide per gli Usa nel mantenere sicura la filiera e l’isola da un’ingerenza cinese. In primo luogo, Stati Uniti e alleati hanno un interesse comune nella difesa dell’integrità e sovranità di Taiwan, che è legata a doppio filo alla capacità di Taipei di essere all’avanguardia, e la fonderia globale, nell’industria dei semiconduttori. In secondo luogo, le attività ibride da parte della Repubblica Popolare Cinese sono l’emblema di una competizione strategica di nuova natura e che richiede un approccio che sia trasversale e multidimensionale, condiviso da tutto l’apparato federale, anche nella gestione dei rischi nell’industria dei chip. Terzo, l’impulso americano per il reshoring delle attività produttive è chiaramente problematico dal punto di vista di Taipei, le cui aspettative sulla copertura militare (e non solo) americana sono legate alla sua essenzialità tecnologica. Per gli Usa, ma anche per altre democrazie. È pertanto necessario coinvolgere maggiormente i partner industriali, diffusi tra Corea del Sud, Olanda, Germania, Francia, Regno Unito e Italia, in un consorzio pubblico-privato più multilaterale possibile. Infine, si riconosce come l’adozione di misure unilaterali per contrastare le minacce cinesi all’isola “abbia fallito nel risponder[vi] sufficientemente o nel prevenire ulteriori antagonismi”.

Fallire nel proteggere e stabilizzare questa filiera e nel garantire la continuità dell’output di Taiwan avrebbe impatti devastanti sull’economia globale, “ben al di là dell’inconvenienza nei ritardi delle spedizioni marittime”.

Fonte: Formiche.net

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