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Welfare aziendale: cos’è, come funziona, esempi e vantaggi

Negli ultimi anni si è affermato sempre di più il welfare aziendale, che punta a migliorare il rapporto tra datore di lavoro e dipendente. Ecco di che si tratta.

Welfare aziendale: cos’è, come funziona, esempi e vantaggi

Un clima disteso sul posto di lavoro è importante, sia in termini economici che sociali. Il rapporto tra datore di lavoro e dipendente passa anche e s

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Un clima disteso sul posto di lavoro è importante, sia in termini economici che sociali. Il rapporto tra datore di lavoro e dipendente passa anche e soprattutto dal benessere di quest’ultimo e dall’assenza di tensione sul posto di lavoro.

È a questo che punta il welfare aziendale, un concetto che esisteva già ante-litteram nel XX secolo, ma che, grazie alle innovazioni tecnologiche, è sempre più affermato ed efficiente. Cos’è, come si fa a introdurlo nella propria attività, quali vantaggi comporta? Rispondiamo a tutte queste domande.

 

 

Cos’è il welfare aziendale?

Il welfare aziendale è un insieme di servizi di vario genere (detti flexible benefit) che il datore di lavoro offre ai dipendenti come integrazione alla busta normale paga (sia in moneta che «in natura» – fringe benefit), con l’obiettivo di accrescere il benessere dei lavoratori e in alcuni casi anche delle loro famiglie.

Nelle sue varie declinazioni è in rapida espansione, anche e soprattutto perché è diventato parte di un sistema di agevolazioni fiscali (sia per il lavoratore che per l’azienda) e la sua affermazione giova anche finanziariamente allo Stato.

L’espansione è confermata e definita, a livello normativo, dalle circolari dell’Agenzia delle Entrate, (su tutte: circolare 28/E 2016 risoluzione 55/E 25/9 2020) e soprattutto dal Testo Unico delle Imposte sui Redditi (TUIR) (articoli 51 e 100) e dalle leggi di bilancio degli ultimi anni che lo hanno modificato, incentivando le imprese ad adottare il welfare aziendale, per sopperire ad alcune lacune del sistema pubblico in termini di previdenza.

Anche i contratti collettivi nazionali (CCNL), come quello dei metalmeccanici, hanno introdotto modifiche in questo senso, imponendo delle somme annuali fisse a carico delle imprese.

Il principio fondamentale è che dev’essere rivolto sempre a tutti i lavoratori, o a una categoria omogenea (eccetto casi come misure che riguardano solo il genere femminile), in quanto misure ad personam, per il TUIR, costituiscono reddito – e dunque non beneficiano di agevolazioni fiscali.

Come funziona il welfare aziendale?

Innanzitutto, vanno distinti due modalità di erogazione dei beni e servizi di welfare:

  1. esternamente (o anche on top), ossia al di fuori della retribuzione vera e propria, un’aggiunta a quello che già è previsto per il lavoratore;
  2. internamente, ossia come parte integrante della paga di un dipendente.

Esistono poi varie forme di adozione del welfare aziendale, che dipendono anche dal fatto che ci sia o meno una serie di benefici on top rispetto alla retribuzione ordinaria:

  • contrattuale: si tratta di quello che si afferma all’interno della dinamica di contrattazione sindacale e di categoria (come i contratti nazionali), quindi gruppi di imprese e i loro lavoratori;
  • convertito: riguarda le imprese singolarmente, che dopo aver adottato il sistema dei premi di risultato (PDR), interno alla busta paga e basato su risultati ottenuti, decidono (sempre) in accordo con i sindacati, di sposare il welfare aziendale;
  • premiale: si ha quando l’impresa con un suo regolamento interno offre premi in base a risultati ottenuti;
  • puro: frutto di decisioni unilaterali di un’impresa, che offre premi non vincolati a risultati futuri.

In sintesi, le imprese che stipulano alcuni contratti nazionali sono obbligate a mettere in piedi un sistema di welfare aziendale, mentre quelle che instaurano rapporti individuali, o locali, possono farlo spontaneamente con un regolamento interno, o con un accordo di II livello (con il sindacato).

L’articolo 51 del TUIR stabilisce quali sono le possibili misure in cui si può articolare il sistema di welfare aziendale. Tra queste spiccano i cosiddetti flexible benefit, ossia un pacchetto di beni e servizi prestabiliti tra i quali il lavoratore può scegliere liberamente.

Il datore di lavoro, se vuole costruire un welfare aziendale efficiente, deve innanzitutto analizzare i bisogni dei lavoratori e delineare un pacchetto che li soddisfi il più possibile (può per esempio effettuare un sondaggio, o, nel caso di imprese più grandi, deve confrontarsi con i sindacati). Dopo aver stabilito il pacchetto di beni e servizi e aver stabilito le regole di erogazione, lo deve comunicare ai dipendenti come meglio crede (anche via posta elettronica).

Contestualmente alla nuova disciplina si sono diffuse delle piattaforme web per la gestione del welfare aziendale. All’interno della piattaforma il lavoratore ha a disposizione un budget e può scegliere come distribuirlo tra i beni e servizi offerti nel pacchetto aziendale. In alternativa possono essere usati i «vecchi» voucher

Le imprese possono decidere di adottare un sistema misto tra premi di risultato (ossia aumenti diretti in busta paga al raggiungimento di obiettivi) e welfare aziendale. Ciò presuppone il deposito del contratto presso il portale del Ministero. In tal caso deve comunque restare in capo al lavoratore la libera scelta di quale sistema adottare (alla luce del fatto che al premio di risultato viene applicata un’aliquota del 10%). Se il lavoratore decide di convertire il suo premio di risultato, è esente dalla tassazione a patto che non superi i 3 mila euro e il suo reddito annuale lordo non superi gli 80 mila euro.

Esempi di welfare in azienda per i dipendenti

I possibili esempi di welfare aziendale sono dei più disparati. Anche il semplice utilizzo dello smart working viene classificato tra le misure di welfare aziendale. Tra le più gettonate si trovano:

  • assistenza sanitaria integrativa (anche nel senso di aiutare nella gestione di casi di familiari non autosufficienti);
  • sostegno per spese di istruzione e gestione dei figli (dalle tasse scolastiche, fino ad asili nido e baby sitter);
  • previdenza complementare (fondi pensione);
  • assistenza psicologica;
  • buoni pasto e buoni spesa di vario tipo (anche il lavaggio dell’auto).
Secondo il Ministero del Lavoro, nel 2020 il 60% dei contratti prevedono il welfare aziendale. Circa il 34% delle misure riguardano benefici in termini di istruzione dei figli dei lavoratori (tasse, libri e iscrizioni agli asili nido). Ogni lavoratore percepisce dalle misure di welfare aziendale, in media, circa 900 euro (dati 2019).

A livello di imprese, circa 130 mila PMI hanno adottato piani di welfare aziendale, anche se più del 50% non è a conoscenza dell’esistenza.

Deve invece sottostare al tetto «fringe benefit» di 258 euro annuali per lavoratore in caso di welfare che parte unilateralmente dall’azienda, a patto che ci sia a fronte un regolamento aziendale. In assenza del regolamento aziendale, il limite della deduzione si applica al 5 per mille del costo del lavoro in bilancio.

Il guadagno dei lavoratori, oltre a essere meramente materiale, sta nel fatto che quelle che dalla prospettiva dell’imprenditore sono spese di welfare, nei casi elencati all’articolo 51 TUIR, non costituiscono reddito per il lavoratore. Questo vantaggio viene percepito soprattutto da chi converte un contratto basato sul vecchio sistema di premi di produttività e risultato (cui si applica un’imposta del 10%).

Il sistema del welfare aziendale ha dunque un effetto positivo nel complesso: sul rapporto tra azienda e lavoratore, sulla prestazione e sul benessere del lavoratore e di riflesso sulle prestazioni e sull’immagine dell’azienda.
La ancora mancata adesione alle PMI andrebbe dunque più che altro attribuita al complicato – e meno incentivante – insieme di norme che ne regolano l’adozione e il funzionamento.

Fonte: Money.it

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