HomeAgriculture, Automotive, Texiles, Fashion & Other

Libia: sabbia e voti

Libia: sabbia e voti

La Libia è un’invenzione, a partire dal nome. Anche per gli Ottomani accedere all’entroterra significava varcare un limes preciso, voleva dire dover a

Cibo, ricerca, innovazione e sostenibilità: OnFoods lancia la call da 5 milioni di euro
Finanza verde: l’ Italia riduce il divario con l’ Europa
Brevetti: è record in Italia nel 2022. I dati di Unioncamere

La Libia è un’invenzione, a partire dal nome. Anche per gli Ottomani accedere all’entroterra significava varcare un limes preciso, voleva dire dover affrontare i leones a guardia di un oceano di sabbia immenso e sconosciuto.

A differenza delle potenze coloniali di più antico lignaggio Roma ha perso non solo le relazioni, ma anche e soprattutto concetto e comprensione della sua quarta sponda, contravvenendo ai principi su cui poggiano le basi della politica estera di qualsiasi Paese ambisca a rivestire un ruolo di sia pur media potenza.

Eredi di un colonialismo definito straccione, gli italiani non hanno saputo tenere debito conto né delle risorse, né della posizione strategica di Tripoli, vera camera di compensazione della politica regionale; attualizzando: se in un’equazione geopolitica la Siria sta alla Turchia, come sta la Libia all’Italia? Qual è il prezzo da pagare per non aver seguito la logica di von Clausewitz che per il raggiungimento di obiettivi politici raccomanda l’uso dello strumento militare?

La sabbia libica scorre sia tra le dita sia nella clessidra segnatempo, ed in entrambi i casi lascia un vuoto impossibile da riempire; su quello che fu incautamente definito bel suol d’amore e che invece rimane, come affermato dallo stesso premier Dbeibah, un paese in guerra, rimangono i ricordi, le visioni e le parole pronunciate da uomini ormai trasformati in evanescenti miraggi: Enrico Mattei e Muhammar Gheddafi, soggetti impossibili da paragonare ma sicuramente da contestualizzare, la cui ascesa ha conosciuto epiloghi drammatici, lasciando anche qui vuoti che vanno compresi e posti sotto la lente politica del realismo.

Se Mattei a suo tempo aveva inquadrato la situazione complessiva, quasi preconizzando per l’attuale classe dirigente una visione economica parziale e soverchiante la più complessa politica, nel 1997 Gheddafi affermò che se mai il suo regime fosse imploso, il Mediterraneo sarebbe divenuto un mare insicuro, sulle cui spende sarebbero cresciuti caos e movimenti islamisti.

Non deve dunque sorprendere come negli ultimi anni la spirale libica abbia inciso su questioni di più ampio respiro, come il mercato petrolifero mondiale, il contrasto al terrore, il flusso di migranti verso l’Europa, lo scontro sull’interpretazione dell’Islam politico, la destabilizzazione di Stati come l’Egitto, porta d’accesso al più ampio e tempestoso mare delle questioni israeliane, e abbia toccato con la Grecia la querelle inerente al nuovo delinearsi turco libico di una ZEE incongrua e provocatoria.

L’Occidente ha compreso ciò che ha voluto afferrando comunque poco sia di Libia sia, in senso più lato, di Medio Oriente, dove ha tentato l’esportazione di una democrazia spesso incomprensibile ed utile solo a fomentare illusioni, basando il tutto su convinzioni che non tengono in alcun conto né la necessità di considerare la diversa concezione dello scorrere del tempo, così affine a quello della sabbia, né a cogliere la differenza tra la granularità dei concetti di mondi troppo diversi. In questo senso assume una valenza comica la dichiarazione rilasciata dal Dipartimento di Stato USA, dimentico della morte del console Stevens ucciso a Bengasi nel 2012, per cui i leader libici dovrebbero trovare soluzioni creative necessarie alla stabilizzazione del corpus legislativo elettorale.

Su dunque il sipario sulle prossime elezioni libiche, ricche di dubbi, prive di un valido apparato securitario cui poco ha potuto contribuire il nuovo governo unificato, fiaccato dalla presenza di truppe straniere più o meno regolari, da migliaia di miliziani impegnati nella spartizione del potere, da cellule jihadiste di varia provenienza, dai colpi di maglio assestati dalla pandemia; elezioni che si svolgeranno 30 giorni dopo quelle presidenziali, per le quali ha trovato approvazione una legge elettorale quanto mai controversa che richiede la maggioranza del 50% +1 dei voti al primo turno, o i ballottaggi tra i due candidati più votati.

A fronte delle mire petrolifere gli ostacoli rimangono numerosi, non da ultimo la presenza di troppi attori esterni, con punti di faglia regionale e più estese fratture globali che hanno acuito lo scontro tra Russia, Europa, USA Turchia, Egitto, EAU, interpreti di presenze così pervasive da farne richiedere al ministro degli esteri libico in carica, per alcuni, un effettivo ma improbabile ritiro.

A proposito, di rilievo la posizione sia di Ankara, che non accetta la definizione di forze straniere perché ritiene la presenza dei mercenari siriani sotto il suo comando legittimata dall’accordo stipulato con il precedente governo Sarraj, sia di Mosca che, attraverso il gruppo Wagner, si proietta nel Sahel.

Rammentiamo che il ministro degli esteri Najla Mangoush ha animato uno scontro tra consiglio presidenziale e governo, scontro determinato dalla disponibilità del ministro ad estradare un sospetto per l’attentato di Lockerbie, in evidente scoordinamento con il principio della collegialità dell’esecutivo, tanto da incorrere in una sospensione dall’incarico con divieto di espatrio, salvo essere reintegrata nelle sue funzioni dal premier.

Nel Maghreb l’interesse per la stabilità libica è di tipo securitario, specialmente in Algeria e Tunisia, che condividono confini terrestri estremamente porosi che hanno permesso contrabbando di armi, traffico di cocaina, eroina e anfetamine.

Da non dimenticare anche il ruolo della Cina che, prima del 2011, intratteneva con la Libia rapporti commerciali del valore di 20 miliardi di dollari, avendo in cambio il 3% della fornitura di greggio al gruppo petrolifero Sinopec.

Le tensioni tra il governo di unità nazionale di Tripoli e la Camera dei rappresentanti di Tobruk rimangono latenti e ravvivate dal ritorno di Haftar, di fatto cittadino statunitense ed imputato di crimini di guerra, su cui si sono indirizzate le attenzioni americane volte ora al raggiungimento di un compromesso di distanza politica siderale rispetto alle determinazioni assunte dall’Amministrazione Obama a partire dal settembre 2011 seguite nell’ottobre dello stesso anno dalle operazioni occidentali, che lasciavano la Libia in balia del caos; un Paese considerato teatro fondamentale perché terreno di scontro tra grandi potenze, ma non così importante da meritare una strategia ben definita.

Anche Atene ha voluto rivestire di significati libici la controversia con Ankara per il controllo di Egeo e di parte del Mediterraneo orientale, accompagnata dalle azioni di Israele, Egitto, Francia ed Iran, che non ha rinunciato a sostenere Haftar con l’intento di ostacolare la politica di Erdogan.

Incurante dei richiami di UNSMIL, il coro di questi attori non fa che aumentare le frizioni tra gli schieramenti locali in un contesto in cui le diverse fazioni armate sono destinate ad influire sui più che prevedibili attriti elettorali; non a caso in settembre il Governo è stato sfiduciato dalla Camera dei rappresentanti con, sullo sfondo, i continui disaccordi circa la futura Costituzione, fondamento di un processo elettorale incerto che alimenta le inopportunità di consentire la partecipazione da parte di candidati con la doppia nazionalità, o che mal si attaglia al peso delle loro pendenze penali; due nomi su tutti: Saif al Islam al Gheddafi e Khalifa Haftar. Beninteso, per risolvere il problema è stato sufficiente non ritenere valida la sfiducia da UNSMIL, Dbeibah e Alto Consiglio di Stato.

Convitati di pietra gli appartenenti alla leadership delle istituzioni sovrane ed economiche, Banca Centrale e NOC, quest’ultima intenzionata a riscuotere direttamente gli introiti petroliferi, entrambe attrici di una guerra intestina che ha visto prevalere il presidente della NOC, Mustafa Sanallah, sul ministro del petrolio Mohamed Aoun, ma con il rischio di una gestione inefficace dei terminal petroliferi orientali che possono estinguere l’unica fonte di reddito della Libia, detentrice delle maggiori riserve petrolifere africane e che fino a poco più di 10 anni fa era la prima alleata mediterranea dell’Italia.

Due i punti critici di interesse: formazione e gestione del bilancio dello stato e ritorno di Haftar, determinato a mantenere possesso e controllo degli asset familiari, ed a perpetuare il controllo delle posizioni politiche strategiche, incorrendo così nelle ire del primo ministro Dbeibah, uomo da considerare quale candidato a pieno titolo alla contesa elettorale in deroga alle decisioni precedentemente formalizzate; un uomo che gode di una popolarità dovuta ad una politica neo-peronista fondata su sussidi a pioggia. È palmare che Dbeibah, come gli altri candidati, rappresenti interessi e gruppi di potere: mentre il premier e Bashagha sono ritenuti affini alla Fratellanza Musulmana, Aref Ali Nayed, ex ambasciatore presso gli EAU, sarebbe funzionale agli interessi dei Paesi del Golfo.

Lo scontro politico diviene dunque aspetto che suggerisce da parte degli USA, solo ora più attenti alle vicende libiche da cui hanno a lungo latitato, il differimento delle elezioni presidenziali entro il 2022, ma che altri, come l’Italia, vedono quale potenziale ostacolo ad un regolare svolgimento delle consultazioni che, anzi, si vogliono fortemente sostenute ipotizzando sanzioni per chiunque remi contro.

 

Realisticamente rimane ancora poco chiaro come si intenderebbe indurre alla ragione Russia e Turchia, soggetti politici palesemente recalcitranti, come evidenziato dall’atteggiamento tenuto in occasione degli ultimi impegni internazionali a Parigi, e contro i quali non sono da attendersi iniziative né da parte americana né da parte delle potenze regionali, Italia compresa, malgrado la presenza aerea di Mosca ad al Jufrah possa alterare gli equilibri NATO in area mediterranea; in ogni caso gli USA, rappresentati dall’ambasciatore Norland, voce sia della U.S.-Libya Business Association che ha già collaborativamente puntato le sue attenzioni su NOC e campi petroliferi, sia della Camera di Commercio USA7, e dal generale Townsend, potrebbero premere per l’invio di una forza ONU priva di reparti europei e di Paesi del Golfo, troppo coinvolti nel recente passato libico. Le perplessità americane hanno comunque trovato eco anche presso l’Alto Consiglio di Stato, interprete non solo di un contrasto sui principi di diritto, ma anche di uno scontro tra poteri.

Ma i poteri devono poter essere incarnati; gli attori principali al momento sono il populista Dbeibah, che ha tra l’altro accusato Tunisia, Malta e Belgio di essersi appropriati di beni libici; Saif al Islam Gheddafi, visibile in un filmato ampiamente diffuso in cui appare, visibilmente spaesato, vestire una delle ultime tenute indossate dal padre Muammar; il feldmaresciallo Haftar.

Interessanti le caratteristiche comuni agli ultimi due: su entrambi pendono pesanti capi di imputazione da parte della Corte penale internazionale, ed entrambi hanno fatto ricorso alla stessa agenzia israeliana per condurre le proprie campagne elettorali. Altri concorrenti per il seggio presidenziale sono l’ex ambasciatore presso le NU, Ibrahim Dabbashi, il comico Hatem al Kour, l’ex ministro dell’industria Fathi bin Shatwan.

Cambiamo ora prospettiva, passando da una forma analitica occidentale, ad una più tortuosa e più ruvidamente realistica.

Sebbene la comunità internazionale prema perché le elezioni si tengano il 24 dicembre, non si può non tenere conto di una legge recentemente approvata, che impone una precedenza di 30 giorni per le presidenziali, ed eventuali ballottaggi, secondo l’interpretazione dell’Alto Consiglio, 45 giorni dopo il primo turno.

Si può dire che la confusione regni sovrana, cosa che del resto doveva considerarsi prevedibile, nel momento in cui si è dato il via al processo negoziale che ha condotto alla formazione di un esecutivo debole che non ha pienamente sconfessato le passate elite e non ha plasmato un comune consenso politico, rimasto parcellizzato su molteplici realtà locali.

Difficile quindi capire chi, effettivamente, sia in vantaggio anche perché molti, più che cercare la propria vittoria, hanno lavorato per la sconfitta altrui, grazie anche al sostegno delle milizie. Paradossalmente il più grande vincitore potrebbe rivelarsi la Fratellanza musulmana Misuratina, l’organizzazione più sofisticata ed abile nello stringere accordi.

La mancanza di una base forte e di un’affiliazione politica porta a dover includere una gamma così vasta di fazioni da rendere possibile solo una visione frammentaria e tribale, cosa che tuttavia non esclude la distribuzione dei dividendi del commercio petrolifero, unico vero collante.

Se Mohamed al Menfi (nella foto, a sinistra), capo del consiglio di Presidenza, non ha interrotto i rapporti con Haftar e non gli si è rivolto contro, e se Dbeibah ha mostrato un’adattabilità spiccata e populista, rimane il problema di Haftar che ha bisogno di nemici per giustificare la sua presenza.

Istituzionalizzare un’unità statuale cartolaria, frutto di accordi presi in altri tempi e da altri attori, non potrà che rafforzare presa e posizione da parte di egemoni esterni. Qualsiasi vincitore dell’ovest libico non otterrà collaborazione ad est, mentre qualunque trionfatore orientale dovrà scendere a patti con le milizie tripoline, cosa che porta a concludere che qualsiasi presidente privo di poteri formalizzati non potrà imporre alcun disegno.

Altro problema di non poco conto consisterà nella gestione bancaria, data la necessaria riunificazione degli istituti centrali, tenuti a distribuire i profitti.

Rimanendo nella paradossalità, in questo momento è forse più facile dialogare con l’individuabile regime talebano che non con il polverizzato apparato libico, vero responsabile della presenza straniera sul suo stesso territorio.

L’obiettività abrasiva del realismo induce a porre le elezioni libiche entro una duplice dimensione: quella occidentale, viziata da una visione che mescola assunti di principio con indelebili e tragici ricordi, ed una locale, condizionata da tribalismi, fazioni, estensioni geografiche di difficile se non impossibile controllo come il Fezzan. È dunque irrealistico ritenere che le consultazioni elettorali, comunque si svolgeranno, potranno dare un quadro definito e rivolto al futuro; più realisticamente assisteremo al tollerato insorgere di una politica agile, poco polite, capace di compendiare opposte istanze fatte di ritorni di fiamma di un regime deposto, di anziani gerarchi che non solo non vogliono ma nemmeno possono desistere dai loro intenti, e da rampanti imprenditori che, scrollatisi di dosso la polvere di un passato pericoloso, avvertono il fascino dell’Islam politico.

Non ci sono alternative: o una definitiva parcellizzazione di un Paese che ancora deve trovare – se mai ci riuscirà – una dimensione nazionale, oppure una riedizione, con altre modalità, di una convivenza resa accettabile dall’ennesima, utilissima, lottizzazione politica.

In Libia l’eccezione consiste nel trovare qualcuno che non sia un Manchurian Candidate; di fatto non c’è soggetto politico che non sia eterodiretto, come non c’è né ci potrebbe essere valutazione che non induca a ritenere la Libia, per l’Italia, l’esempio concreto di una debacle politica che avrebbe fatto inorridire Mattei.

Il debole multilateralismo mediatore rimane, in effetti, l’unico strumento disponibile e di relativa funzionalità per gli interessi nazionali, per una classe politica che, una volta di più, vede scorrere la sabbia libica tra le mani vuote senza avvedersene.

Fonte: Difesaonline.it

Commenti