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Esiste davvero la leadership femminile? Risponde Lella Golfo

Dobbiamo uscire dallo schema delle donne influencers e reclamare il ruolo che ci spetta al tavolo dei decisori, rompendo schemi e stereotipi. Le sfide del presente e del futuro hanno bisogno del nostro paradigma di leadership. Il libro di Chiara Galgani e Valeria Santoro nella prefazione di Lella Golfo, presidente della Fondazione Marisa Bellisario

Esiste davvero la leadership femminile? Risponde Lella Golfo

Dobbiamo uscire dallo schema delle donne influencers e reclamare il ruolo che ci spetta al tavolo dei decisori, rompendo schemi e stereotipi. Le sfide

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Dobbiamo uscire dallo schema delle donne influencers e reclamare il ruolo che ci spetta al tavolo dei decisori, rompendo schemi e stereotipi. Le sfide del presente e del futuro hanno bisogno del nostro paradigma di leadership. Il libro di Chiara Galgani e Valeria Santoro nella prefazione di Lella Golfo, presidente della Fondazione Marisa Bellisario.

Alla domanda da cui parte il bel libro scritto da Chiara Galgani e Valeria SantoroLeadership femminile. Esiste davvero? Storie di donne imprenditrici e manager che hanno rotto il soffitto di cristallo (Franco Angeli) rispondo senza esitazioni che sì, la leadership femminile esiste. Storicamente, fattualmente e come stile che si sta affermando con sempre maggiore decisione, in Italia, in Europa e nel mondo.

Per far chiarezza sulla leadership femminile dobbiamo prima di tutto parlare delle sue origini e dell’evoluzione che sta conoscendo. Perché è innegabile che il concetto di leadership femminile non è assolutamente dato, anzi è in fase di lenta e faticosa costruzione. I motivi sono presto detti: la presenza femminile in economia, in politica, nelle professioni è ormai radicata alla base, ma si dirada ai vertici. Anche in ambiti fortemente femminilizzati come la sanità – dove le donne sono il 67% della forza lavoro – salendo la scala gerarchica, le dirigenti nella fascia apicale si fermano al 25%. Stessa cosa accade nell’istruzione dove sono in grandissima maggioranza, ma poi in cattedra sono meno di 3mila le ordinarie contro oltre 12mila uomini, 10 rettrici contro 76 rettori.

Più della metà dei magistrati italiani sono donne ma il 70% delle posizioni a carattere di vertice, dal Consiglio superiore della magistratura in giù, sono in mano maschile. E potrei continuare all’infinito, fino ad arrivare alle aziende: in Italia ci sono circa 6 milioni di imprese, di cui solo 1,3 milioni amministrate da donne. È stata l’analisi di questi dati, forte del laboratorio della Fondazione Marisa Bellisario che presiedo, a convincermi nel 2009 a presentare la proposta di legge sulle quote di genere nei Cda delle società quotate e partecipate. Diventata legge nel 2012, in 10 anni quella norma ha letteralmente stravolto il sistema economico italiano: se nel 2011 le donne nei Cda era il 5,9% oggi hanno superato il 40%, facendo dell’Italia l’avamposto d’Europa.

Una“rivoluzione gentile” i cui effetti positivi hanno impresso una forte accelerazione alla leadership femminile in ogni ambito. Partendo dall’esperienza concreta delle aziende “costrette” a includere le donne e che oggi possono contare su board più giovani e istruiti, su risultati migliori, in termini di ritorno sul capitale e margine netto di profitto, e su un valore azionario crescente correlato alla parità. Un modello di governance di successo che ha convinto il legislatore a reiterare la norma, alzando l’asticella al 40%, e che recentemente è stato recepito dall’Europa con la direttiva “Women on boards” (approvata, dopo dieci anni di accese discussioni quando alla guida del Parlamento e della Commissione europee ci sono due donne…). Al di là dei numeri, la legge sulle quote – che mi onoro di aver pensato, elaborato e portato all’approvazione – ha animato un dibattito sopito da decenni sull’importanza del contributo femminile ai vertici. E ha avuto il grande merito di introdurre il tema delle quote – e quindi di un meccanismo che forzi un sistema inceppato che non riconosce i talenti femminili – in tutti gli ambiti e settori.

Dalla politica alle professioni, le quote si sono affermate come uno strumento fondamentale per accelerare un cambiamento necessario. Perché tener fuori le donne dai luoghi in cui le decisioni vengono prese significa rinunciare al contributo della metà dei talenti e intelligenze del Paese. Uno spreco di risorse ed energie che non possiamo più permetterci. Della leadership delle donne c’è sempre più bisogno. E non è una questione di mera equità ma, come dimostra l’esempio delle società quotate e partecipate, di modernità, produttività, sostenibilità. E lo è per una lunga serie di ragioni. Partiamo dalle caratteristiche della leadership femminile che, a detta di molti studi, sarebbe la migliore per gestire la complessità del presente.

Le sfide della modernità, infatti, richiedono il passaggio dalla leadership transazionale a una trasformativa. Oggi, in ogni ambito e settore, la chiave è un tipo di leadership che incentivi la creatività e le idee innovative, che consenta di bilanciare visione e obiettivi sia di lungo sia di breve termine senza perdere di vista l’importanza delle relazioni. Un leader trasformazionale sa individuare la giusta strada per motivare le persone e permettere loro di abbracciare quei cambiamenti che oggi sono all’ordine del giorno. Questo tipo di leadership richiede prima di tutto empatia: dalla comprensione degli altri alla capacità di comunicare, coinvolgere, motivare, far stare bene, collaborare, fare squadra. E oggi sappiamo che la velocità e la complessità del lavoro, l’ibridazione tra vita e professione, lo stesso lavoro da remoto hanno rotto gli argini che pretendevano di differenziare la persona dal suo ruolo professionale: la scarsità di comprensione della persona nella sua interezza è tra le cause all’origine di quella tossicità che spinge sempre più persone a lasciare il posto di lavoro.

E fa scappare soprattutto (e prima) le persone che possono scegliere, quei talenti che l’azienda non può permet- 9 tersi di perdere. La seconda caratteristica di questo tipo di leadership è la visione, una peculiarità che distingue addirittura a livello biologico uomini e donne: i primi vedono meglio da lontano e gli oggetti in movimento, le donne colgono meglio i dettagli intorno a loro e le cose più vicine. È il cosiddetto multitasking, un “talento” femminile che in un contesto complesso, disordinato e in continuo cambiamento come quello attuale, che richiede capacità di adattamento e collegamento, risulta indispensabile. E infine la leadership trasformazionale richiede la capacità di far lavorare bene gli altri, di ispirarli e motivarli, doti molto simili a quelle genitoriali. Ora, assodato che la leadership femminile si configura come il modello del futuro, resta un punto cruciale: come insegnarla?

Come far cadere gli stereotipi che ancora circondano una leader donna? Come aiutare le donne a trasformare il loro naturale potenziale in uno stile di comando senza rincorrere modelli maschili sorpassati? Perché è innegabile che, ancora oggi, l’uomo che si fa valere è “deciso”, la donna che comanda “prepotente”; il dirigente che alza la voce è “autorevole”, la sua pari grado è “isterica”. Stereotipi che si “attaccano” alle leader: una donna al vertice è sempre “aggettivata” in modo poco lusinghiero. Stereotipi potenti che rendono il cammino femminile verso la leadership, sia individuale sia collettivo, pieno di ostacoli. In conclusione, credo che due siano i temi dirimenti, le azioni da mettere in atto per creare i presupposti di una leadership femminile matura e diffusa. Da una parte, c’è bisogno di role models: dobbiamo dare alle nostre figlie modelli positivi a cui ispirarsi.

Avete mai fatto caso che i corsi di leadership al femminile sono tantissimi e quelli dedicati agli uomini praticamente quasi non esistono? I leader maschi imparano per emulazione, mentre le donne non hanno abbastanza modelli da imitare. In questo senso, certamente la prima Presidente del Consiglio donna rappresenta un potente fattore di cambiamento. Poi, dobbiamo certamente lavorare su noi stesse. C’è un interessante studio dell’Università Bocconi che parla di investimento necessario nel capitale psicologico della donna. Un elemento rilevato anche nei concorsi pubblici: le donne che pur arrivano molto preparate, nel momento in cui i test mettono una penalità per ogni risposta sbagliata, tendono a non rispondere più frequentemente degli uomini che invece si buttano, rischiano. Siamo spesso più competenti, siamo le persone giuste per occupare un ruolo di vertice, ma tendiamo a non proporci perché ci manca la consapevolezza delle nostre enormi potenzialità. Dobbiamo uscire dallo schema delle donne influencers e reclamare il ruolo che ci spetta al tavolo dei decisori, rompendo schemi e stereotipi. Le sfide del presente e del futuro hanno bisogno del nostro paradigma di leadership.

Fonte: Formiche.net

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