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Greenwashing e comunicazione scorretta: in aumento le campagne ingannevoli delle aziende

Si fa sempre più impellente la necessità di una disciplina organica all’interno dell’ordinamento italiano che sia in grado di mettere in piedi un efficace sistema di contrasto", le parole di Emilio Cucchiara, Head of Antitrust Team Deloitte Legal

Greenwashing e comunicazione scorretta: in aumento le campagne ingannevoli delle aziende

Il termine “greenwashing” sta ad indicare una serie di pratiche con cui le imprese “ripuliscono” il loro brand attraverso campagne pubblicitarie e str

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Il termine “greenwashing sta ad indicare una serie di pratiche con cui le imprese “ripuliscono” il loro brand attraverso campagne pubblicitarie e strategie di marketing glorificanti una sensibilità e attenzione per l’ambiente, non corrispondente alle loro pratiche commerciali ed alla loro reale attività.

Le pratiche di greenwashing

Tra le tipiche pratiche di greenwashing può annoverarsi l’uso di una comunicazione scorretta attraverso un linguaggio volutamente vago, poco trasparente per l’utenza o, di contro, così tecnico da non essere fruibile, oppure una comunicazione reticente ed omissiva, laddove l’azienda si proclama “green” soltanto in relazione ad alcune fasi del processo produttivo, non menzionando l’impatto ambientale che altre fasi generano, o, infine, laddove si esalta il proprio prodotto come maggiormente ecosostenibile di altri, non fornendo però dati utili a permetterne un riscontro della performance. Infine, nei casi più gravi, le imprese compiono greenwashing direttamente mentendo sulle loro performance ambientali attraverso informazioni scorrette e slogan non rispondenti alla realtà così da indurre il consumatore all’acquisto dei prodotti pubblicizzati, nell’erroneo convincimento di compiere un gesto positivo per l’ambiente.

I dati del fenomeno

Un’indagine condotta dalla Commissione europea, dalle autorità nazionali di tutela dei consumatori congiuntamente ad altre autorità internazionali, sotto il coordinamento della Ipcen (Consumer Protection and Enforcement Network) ha portato a risultati allarmanti. La ricerca è stata realizzata attraverso uno screening dei siti web e delle affermazioni ecologiche dei brand che proclamano di svolgere attività a tutela dell’ambiente. Di fatto, in oltre la metà dei casi, l’azienda non aveva fornito ai consumatori informazioni sufficienti per determinare la veridicità dell’affermazione; nel 37% dei casi, il claim conteneva formulazioni vaghe e generiche, come “cosciente”, “rispettoso dell’ambiente”, “sostenibile” e nel 59% dei casi non venivano fornite prove a sostegno di tali affermazioni. Nel complesso, nel 42% dei casi le autorità hanno ritenuto ingannevoli e non veritieri i green claim, palesando la possibilità di considerare tali dichiarazioni come pratiche commerciali sleali, ai sensi della Direttiva sulle pratiche commerciali sleali.

Ulteriori dati per saggiare l’ampiezza del fenomeno sono forniti dallo studio di Growth for Knowladge (GfK) nell’ambito del progetto “#WhoCaresWhoDoes”, dove emerge come in Europa, la Germania sia il Paese con il maggior numero di consumatori che si proclamano “Eco Active” e impegnati per la tutela dell’ambiente, con una percentuale che si attesta attorno al 40%. In Italia, il 30% dei consumatori dichiara di “evitare i prodotti con imballaggi in plastica”, mentre il 36% ha smesso di comprare alcuni prodotti dopo aver avuto informazioni circa l’impatto negativo degli stessi. Il quadro che si delinea, tuttavia, è dunque allarmante ed il consumatore medio, sprovvisto di strumenti adeguati, viene lasciato in balia delle campagne marketing che mistificano la realtà fattuale.

“In Italia la disciplina delle pratiche commerciali scorrette è contenuta nel Codice del consumo, che offre una tutela specifica al consumatore rispetto alle pratiche ingannevoli e alle pratiche aggressive – spiega Josephine Romano Head of ESG Team Deloitte Legal – Accanto alle disposizioni in materia di pratiche commerciali scorrette (che, come detto, tutelano i consumatori), vanno altresì tenute in considerazione le previsioni in materia di pubblicità ingannevole e i possibili impatti sanzionatori previsti in caso di commissione di reati 231, alcuni dei quali configurabili proprio attraverso la pratica del greewashing (tra gli altri, il delitto di Frode nell’esercizio del commercio). L’applicazione delle norme in materia di pratiche commerciali scorrette e pubblicità ingannevole è demandata alla competenza dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM), che, in caso di violazione, può applicare sanzioni pecuniarie fino a un massimo di 5 milioni di euro. L’AGCM si è già occupata del tema in questione in diverse occasioni negli ultimi anni”.

“Il fenomeno è senz’altro complesso e, come finora indagato, dispiega i suoi effetti dannosi su una moltitudine di versanti, dalla tutela del consumatore, alla transizione ecologica nel suo complesso, passando per la finanza sostenibile, fino a colpire la stessa persona giuridica in termini di danni reputazionali e sanzionatori – dichiara Emilio Cucchiara Head of Antitrust Team Deloitte Legal – Si fa allora sempre più impellente la necessità di una disciplina organica all’interno dell’ordinamento italiano che sia in grado di mettere in piedi un efficace sistema di contrasto. Alcune esperienze estere possono fungere da modelli a cui rifarsi, come ad esempio il Green Claims Code, adottato nel settembre del 2021 dalla Competition and Markets Authority, ovverosia l’Authority inglese in materia di antitrust, o ancora, il Còdigo de Autorregulaciòn sobre argumentos ambientales en comunicaciones comercial adottato in Spagna, entrambi in tema di tutela del consumatore. Approcci diversi sono invece stati adottati da Stati Uniti, dove, lato sustainable finance, si sta lavorando ad una taskforce che monitori gli investimenti verdi, e Francia ove i green claim delle quotate sono sanzionati con una multa fino all’80% del costo della (falsa) campagna pubblicitaria”.

Fonte: La Repubblica.it

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