HomeCommunication & Tecnologies

Benvenuti nell’ avatar economy

La tecnologia ha modificato le esperienze umane e anche il lavoro è destinato a cambiare. Il futuro è già qui, tanto avvincente quanto inquietante

Benvenuti nell’ avatar economy

Esiste esperienza umana al di fuori di uno spazio e di un tempo predeterminati? A questa domanda Immanuel Kant rispose no. Lo spazio e il tempo, soste

Emergenti: l’ impatto di banche centrali e demografia
A first: Scientists grow plants in soil from the Moon
Enterprise performance management: cos’è e come funziona

Esiste esperienza umana al di fuori di uno spazio e di un tempo predeterminati? A questa domanda Immanuel Kant rispose no. Lo spazio e il tempo, sosteneva il filosofo, sono forme pure della sensibilità umana e la precedono. Sono, per dirla usando il gergo filosofico, “aprioristiche”.

Se questo è vero ne consegue che si può avere un’organizzazione, che sia impresa, azienda, associazione o qualsiasi altro gruppo umano aggregato su uno scopo, solo nella misura in cui più persone si possano trovare a co-operare insieme, in compresenza spaziale e in sincronia temporale.

Se pensiamo infatti alle organizzazioni pre-industriali, si avevano luoghi di lavoro antropologici, molto spesso integrati con la vita personale e familiare, dove le persone si incontravano e co-operavano in modo sincronico: la bottega, la fattoria, l’officina dell’artigiano. E anche fuori dal lavoro la compresenza era la normalità: la chiesa, l’oratorio, la piazza.

Poi sono arrivate le fabbriche e il taylorismo, che se da un lato hanno spersonalizzato i luoghi con l’introduzione delle catene di montaggio, dall’altro hanno mantenuto il requisito della compresenza delle squadre degli operai, con turni di lavoro e ciclo continuo.

E che dire delle aziende di servizi dell’epoca? Informazioni scritte su carta che passavano di mano in mano, da scrivania a scrivania, da ufficio a ufficio, in un brulicare di persone che si muovevano insieme alla carta, in rigorosa compresenza.

Poi le telecomunicazioni, l’informatica e internet hanno cominciato a cambiare il paradigma, ma prima di guardare al futuro fermiamoci un attimo e torniamo a Kant e alla sua concezione di spazio. Ne La Critica della Ragion Pura sosteneva che:

Lo spazio è una rappresentazione necessaria a priori, la quale sta a fondamento di tutte le intuizioni esterne. Non si può mai formare la rappresentazione che non vi sia spazio, sebbene si possa benissimo pensare che in esso non si trovi nessun oggetto. Lo spazio vien dunque considerato come la condizione della possibilità dei fenomeni, non come una determinazione dipendente da essi; ed è una rappresentazione a priori, la quale è necessariamente a fondamento di fenomeni esterni.

In altre parole per il filosofo tedesco non esistono fenomeni percepiti dall’uomo se non in uno spazio determinato. Ma Kant si riferiva esclusivamente a uno spazio fisico? Probabilmente sì.

Sino a pochi decenni fa infatti il non-spazio e il non-tempo, al di là di alcune brillanti intuizioni dei fisici teorici, erano il terreno prediletto e quasi esclusivo di letteratura e cinematografia fantascientifiche, che tradizionalmente hanno sempre sostenuto che per superare i concetti di tempo e spazio sarebbero state necessarie soluzioni magiche come il teletrasporto e la macchina del tempo.

Le rappresentazioni umane in dimensioni altre e parallele sono state quindi proposte come entità, spiriti e fantasmi, variamente invocati dai medium e tenacemente cacciati da esorcisti e ghostbusters, tra il divertente e il terrificante, tra l’horror e il trash. Da una parte la dimensione del reale, vero, tangibile e contestuale, dall’altra la dimensione dell’altrove, occulto, magico e parapsicologico.

Poi si iniziò, nell’ultimo quarto del secolo scorso, a parlare di realtà aumentata, collocandola in un futuro che sembrava allora molto futuribile e che oggi è la normalità del presente. L’uomo infatti, con le attuali tecnologie, può adesso manipolare spazio e tempo a piacere e a posteriori, decontestualizzando l’esperienza e i fenomeni, con buona pace del grande filosofo tedesco. Con videocamere a sensori laser già disponibili si possono filmare scene tridimensionali, trasmetterle a distanza, e riproiettarle altrove con particelle di luce stampate in 3D.

Possiamo quindi già immaginarci sale riunioni dove gli umani interagiranno con ologrammi, in una tridimensionalità ibrida di suono e spazio oggi non possibile con gli schermi a due dimensioni. Con l’intelligenza artificiale si possono ricostruire non solo i tratti somatici ma anche la personalità di una persona defunta, con algoritmi che “imparano” dai video conservati di questa persona, dalle foto, dagli scritti, recuperando così non solo apparenza fisica, timbro di voce e gestualità, ma anche pensiero e contenuti culturali.

Appare quindi evidente quanto le implicazioni dello spostamento delle categorie spaziali e temporali in un contesto a posteriori siano massive e introducano profondi mutamenti economici, antropologici, sociologici e psicologici. Si va insomma rapidamente verso una sorta di “avatar economy”, dove ciascuno di noi sguinzaglierà in giro per i vari metamondi una o più istanze di sé stesso con il compito di esplorare, apprendere, comunicare, vendere, acquistare. Sarà un sistematico spostamento di parte dell’esperienza umana in quello che è stato definito “metaverso”.

È una prospettiva che inizia a delinearsi rapidamente, tanto avvincente quanto inquietante. Ed è una prospettiva probabilmente inevitabile perché ad oggi, grazie alle tecnologie, sappiamo fare molte cose ma, a causa delle tecnologie, non sappiamo più come fermare il mondo.

Ma prima del metaverso che verrà stiamo già assistendo a un fenomeno di veloce abbandono della compresenza fisica come requisito fondante ed essenziale del fare impresa, con molte nuove aziende che nascono remote e non hanno né avranno mai una sede fisica, e aziende esistenti che si stanno interrogando sul cosiddetto “future of work”. Vediamo vari tentativi di razionalizzare il “lavoro ibrido”, con schemini un po’ semplicistici del tipo 3 giorni a casa e 2 in ufficio o viceversa, calendarizzati in modo da avere una presenza media costante e con l’effetto collaterale (e paradossale) di diminuire la possibilità di incontro delle persone, divise a metà tra casa e ufficio.

Ma prima del metaverso che verrà stiamo già assistendo a un fenomeno di veloce abbandono della compresenza fisica come requisito fondante ed essenziale del fare impresa, con molte nuove aziende che nascono remote e non hanno né avranno mai una sede fisica, e aziende esistenti che si stanno interrogando sul cosiddetto “future of work”. Vediamo vari tentativi di razionalizzare il “lavoro ibrido”, con schemini un po’ semplicistici del tipo 3 giorni a casa e 2 in ufficio o viceversa, calendarizzati in modo da avere una presenza media costante e con l’effetto collaterale (e paradossale) di diminuire la possibilità di incontro delle persone, divise a metà tra casa e ufficio.

In molte persone poi la difficoltà di immaginarsi come parte di una comunità sistematicamente e non occasionalmente dispersa nello spazio, crea una profonda, radicata resistenza al cambiamento che già si sta manifestando ampiamente. È sufficiente leggere il dibattito sui social per capire come, dopo i no-vax e pro-vax, sia facile immaginare che anche i no-smart e i pro-smart arriveranno allo scontro ideologico tra post e commenti infuocati che già si vedono sui social network.

Ma è soprattutto tra i manager che è particolarmente diffusa la convinzione che senza una fisicità condivisa in uno spazio prestabilito non vi sia organizzazione. Probabilmente è perché abbiamo una classe dirigente ancora molto gerarchica, poco incline alla delega e alla fiducia, timorosa di perdere il comando se viene meno il controllo “a vista”.

Leggo di molti manager che, mentre organizzano la riapertura di quegli uffici che sono diventati cattedrali deserte negli ultimi due anni, affermano che lo smart working è un fenomeno passeggero, che non durerà, perché le persone “hanno bisogno di relazione, di contatto fisico, di stare insieme”. Lo dicevamo anche dell’e-commerce, una ventina d’anni fa, sostenendo che l’esperienza fisica dell’acquisto in negozio è insostituibile, perché le persone vogliono provare, toccare, guardare e parlare prima di comprare. E sappiamo bene come è andata a finire.

Fonte: Huffpost.it

Commenti